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L'IDEA DI EUROPA. 
PROBLEMI E PRESUPPOSTI STORICO-CULTURALI
di
Michele Martelli

1. Per chiunque si accinga a trattare del problema dell'Europa, o dell'idea e della storia d'Europa, alcune domande preliminari appaiono inevitabili. Di quale Europa si parla? Dell'Europa occidentale, centrale o orientale? Compresa o esclusa la Russia e il mondo slavo? Dagli Urali o dal Danubio a Gibilterra? E quale la sua genesi? Dalla Grecia antica, dall'Impero romano o dal Medioevo cristiano? O dagli inizi del mondo moderno? E in tal caso, dall'età comunale, dall'Umanesimo, dal Rinascimento o dall'Illuminismo? O ancora, al di là dei confini geografici, come va intesa? Come entità culturale, civile e morale? O come entità economica e politica? O nell'insieme di tali significati? E allora, di nuovo, quali popoli e paesi possono entrare nel concetto d'Europa, in forza di quale storia, di quali costumi e tradizioni politiche e culturali? 
Il progetto dell'unificazione europea si è configurato in concreto per la prima volta, come è noto, soltanto nel secondo dopoguerra del secolo scorso, dopo due devastanti guerre mondiali che hanno avuto nell'Europa il loro epicentro. All'inizio tale progetto riguardava solo pochi paesi e Stati europei occidentali. Poi si è esteso progressivamente ad un numero sempre maggiore di paesi, ma tutti al di qua del Danubio. I paesi e i popoli est-europei, malgrado il desiderio e la richiesta di farne parte, ne restano tuttora fuori. Il progetto europeistico, per quanto in fase avanzata di attuazione, è ancora in corso d'opera, e nessuno può prevederne gli esiti finali. Perciò può essere utile interrogarsi sulle sue ragioni e sui suoi presupposti storico-culturali anche più remoti. Soprattutto se vogliamo meglio orientarci nel presente. 
L'idea attuale di Europa non nasce dal nulla, ma è il punto d'approdo, fortemente problematico, di una lunga e contraddittoria storia, che è opportuno tentare di enucleare. L'opportunità di tale ricerca implica è un obbligo, se è vero, come diceva Benedetto Croce, che "la storia è sempre storia contemporanea". Le nostre idee-guida, i nostri orientamenti ideologici e i nostri atteggiamenti mentali, le nostre eventuali proposte di soluzione del problema di quale Europa unita edificare dipendono anche dalla quantità e qualità del nostro corredo di conoscenze del passato, ossia, nel nostro caso, della storia e della preistoria dell'idea d'Europa. Uno sguardo anche rapido sulla genesi dell'idea d'Europa, fin nei suoi recessi mitologici, può essere utile per comprendere sia la validità delle ragioni dell'attuale europeismo sia i pesanti limiti, da cui non è facile liberarsi, dell'eurocentrismo.

2. Cominciamo dalla parola. La si trova per la prima volta nell'antica mitologia cretese. E u r o p a (colei che ha il volto largo o bianco come la Luna), figlia o moglie di Fenice (da cui prende il nome la Fenicia), viene rapita da Zeus, sotto forma di toro (simbolo del Sole), e a Creta, sotto un platano, concepisce Minosse, che sposa Pasifae. Costei a sua volta si innamora follemente di un bellissimo toro e, nascostasi dentro una mucca artificiale, si lascia ingravidare per dare poi alla luce il Minotauro (ossia il toro Minos), che sarà infine ucciso dall'eroe Teseo, mitico liberatore di Atene e della Grecia dal dominio cretese .
Che cosa si può trarre dalla leggenda? Innanzitutto che le origini dell'antica civiltà cretese e greco-classica, culla dell'Europa moderna, sono indissociabili dall'interscambio commerciale e culturale col Vicino Oriente (la Fenicia corrisponde all'attuale Libano). Qui il non-greco, l'altro dal greco, è parte essenziale della stessa definizione di greco. Lo "stesso" non è separabile dall'"altro", l'"identico" dal "non-identico". Non esiste una civiltà pura, incontaminata, del tutto autonoma e contrapposta alle altre. Quanto della cultura greco-antica deriva dall'Oriente (la matematica e la geometria dall'Egitto, l'astronomia dagli assiro-babilonesi, ecc.)? Quanto della moderna civiltà europea deriva dall'antica Cina, o dal mondo islamico medioevale, o persino dalle culture amerinde precolombiane? 
In secondo luogo, la leggenda indica che la nascita della civiltà cretese prima e greca poi è dovuta ad un atto di inganno e violenza, di cui sono protagonisti gli stessi Dei dell'Olimpo le cui azioni si intrecciano con quelle di eroi leggendari (ratto d'Europa da parte di Zeus-toro; uccisione del Minotauro da parte di Teseo, quale mitica celebrazione della fine della potenza marittima della Creta minoica a favore del neonato imperialismo militare e commerciale greco, soprattutto ateniese).
Infine, la corruzione e inversione del significato simbolico-religioso di animali e enti naturali: la Luna, antica cifra cosmologica del principio femminile, sottomessa al Sole; il Toro ridotto da manifestazione di Zeus signore dell'Olimpo ad abominevole mostro divoratore di giovani incolpevoli. Tale inversione è l'indice del passaggio dall'antica civiltà al femminile, matrilineare, pacifica ed egualitaria, fiorita nell'Europa neolitica nel nome della Grande Dea o Dea Madre, alla nuova e opposta grande civiltà patriarcale e schiavista della Grecia antica (il Toro e la Luna, vecchi simboli della civiltà della Dea Madre, vengono gradualmente degradati, o subordinati ai nuovi simboli dominanti, come il Sole) .
Violenza politica e militare ai danni dell'"altro" e interscambio culturale e ideale: ecco i due poli, negativo e positivo, tra cui si snoda tutta la storia successiva dell'Europa.

3. Secondo un'altra antica etimologia, la parola E u r o p a deriverebbe dal semitico "erebu" (= tramontare del sole), e A s i a dal semitico "asu" (= sorgere del sole) . Ciò posto, saremmo ab origine in piena contrapposizione Europa-Asia, Occidente-Oriente. Ma tali categorie, in vigore tuttora, sono in realtà fluide, relative, convenzionali. 
Da un lato, si tratta, come è ovvio, di semplici coordinate geografiche, rovesciabili a secondo del luogo e dell'ottica da cui ci si pone. Per i navigatori fenici (i primi forse ad usare i due termini) Occidente era la parte di mare e di terra dalla Siria a Gibilterra. Per i Greci, che si identificavano con l'Occidente, Oriente era l'Asia minore. Tutto dipende dal punto di osservazione. Per puro esercizio o gioco mentale, si potrebbe rilevare per esempio che per la Cina Occidente era, ed è, l'India, che per noi è Estremo Oriente (il buddismo fu portato in Cina dall'Occidente per opera del mitico maestro indiano Bodidharma). Per il Giappone invece Occidente era, ed è, non solo l'Europa, ma la Cina (dalla quale derivò il buddismo zen, religione che il giapponese definirebbe dunque occidentale, e non orientale, come facciamo noi). Per gli Stati Uniti d'America, Occidente è la Cina e non l'Europa, che è il suo Oriente; per l'Europa il Nord-America è l'Occidente, e la Cina l'estremo Oriente; ma per la Cina, Occidente è l'Europa, ma non il Nord-America, che è il suo Oriente. Modificando il punto di vista, l'Occidente diventa Oriente e l'Oriente Occidente.
Niente autorizza a pensare ad una sorta di superiorità naturale, innata, o assoluta, sovrastorica, dell'Occidente sull'Oriente o viceversa. Sintomatico quanto affermato a riguardo da Hegel. "Vero è che ogni paese è di fatto insieme un Oriente e un Occidente, e così l'Asia è un Occidente per l'America". Ma subito dopo, nello stesso testo, si legge: "Come l'Europa è […] l'Occidente assoluto, così l'Asia è assolutamente l'Oriente". Ossia: "la storia del mondo (Weltgeschichte) va da Oriente a Occidente: l'Europa è assolutamente la fine della storia del mondo, così come l'Asia ne è il principio" . Secondo il grande filosofo idealista tedesco, è sì nell'Asia, o più precisamente nella Cina, che nasce la prima forma di Stato, ma è nell'Europa che la storia universale dello Spirito giunge a compimento con l'apparizione dell'Autocoscienza assoluta. Come dire: la "Weltgeschichte" termina con la stessa filosofia hegeliana. Il limite fortemente eurocentrico di questa grandiosa concezione, che pur valorizza l'inizio cinese, asiatico della "Weltgeschichte", appare evidentissimo. La valorizzazione dell'Europa, o del suo ruolo nel mondo, se piegata in senso eurocentrico, è una pura e illusoria costruzione ideologica, così come lo sarebbe un'eventuale sinocentrismo, o arabocentrismo, o afrocentrismo ecc. Ancora più illusoria e mistificante, in quanto priva di ogni plausibilità fattuale, almeno sotto l'aspetto politico-militare, apparirebbe oggi una presunta pretesa dell'Europa ad un neo-egemonismo mondiale.
Sul piano storico-politico e culturale, è vero però, come ha osservato Bernard Lewis, che ""Europa" è un concetto europeo", inventato dagli europei, così come europeo è il concetto di "Asia e Africa", nonché quello di "America", scoperta e così chiamata e fatta dagli europei . Imporre i nomi alle cose è uno dei privilegi tradizionali del potere. Fu l'Europa, nel corso della storia del colonialismo moderno, a delineare "a suo uso e consumo", per i suoi scopi di dominio, "l'intero sistema geografico dei continenti" ; a disegnare, spesso a tavolino, la carta geopolitica del pianeta. "Nord-Sud, Est-Ovest", ha scritto Gramsci nei Quaderni, sono "riferimenti, rapporti reali" e insieme "costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, poiché fuori della storia reale ogni punto della terra è Est e Ovest nello stesso tempo" . È stata per l'appunto l'Europa, l'Europa occidentale, in virtù della sua supremazia politica, militare e culturale mondiale, di cui l'impresa di Colombo può essere assunta a simbolico punto di inizio, a creare quelle costruzioni arbitrarie e convenzionali e a trasformarle in riferimenti e rapporti reali. Una sorta di paradossale "creatio ex nihilo", di entificazione dal nulla, che ha prodotto, suggellato e modellato di sé la realtà e la storia dei popoli extra-europei. Ma con due conseguenze opposte per l'Europa, l'una principale, e sicuramente negativa, l'altra secondaria, e relativamente positiva: a) la parziale distruzione fino all'annientamento, in taluni casi (è il caso degli Aztechi, dei Maya, dei pellerossa), oltre che delle risorse umane e materiali, anche della dignità, dell'autonomia e identità culturale di quei popoli; b) l'esperienza e la conoscenza del "diverso", che, arricchendo spiritualmente l'Europa, l'ha forse particolarmente sensibilizzata e predisposta all'ipotesi della costruzione di una futura, inedita, grandiosa civiltà unitaria e inter-culturale mondiale. 
D'altra parte, "Oriente" e "Occidente" appaiono categorie difficilmente definibili sotto il riguardo contenutistico, concettuale. Il politologo statunitense Samuel Huntington ha proposto recentemente di usare "Occidente" come termine comprensivo di Europa occidentale e Nord-America (i Paesi nord-atlantici), nonché di Australia e Nuova Zelanda (le ex-colonie britanniche), ma si è mostrato incerto sull'inclusione dell'America latina. In virtù di quale criterio selettivo? Di quello dell'appartenenza religiosa (l'America latina sarebbe in parte religiosamente sincretistica). Ne segue che lo scenario mondiale del terzo millennio si configurerebbe come un tremendo, apocalittico "scontro di civiltà" (civiltà cristiana contro civiltà islamica o confuciana o ortodossa ecc.) . Come nelle età primeve della storia umana, o nell'epoca delle Crociate medioevali contro l'Islam o contro il Turco, o delle guerre religiose intestine dell'Europa moderna, Dio o gli Dei contrapposti tornerebbero ad essere gli immaginari registi e burattinai della storia umana. Col paradosso di trovarsi, come purtroppo succede anche in questi giorni, di fronte a faziose invocazioni alla stessa divinità fatte con tre nomi diversi (Dio, Jahweh e Allah), a difesa e consacrazione delle atrocità commesse dalla propria parte politica o religiosa. "Allah è con noi. Benedetto sia il suo nome!", recitano alcuni; "God bless America", cantano altri; "Lode a Jahweh, il Dio degli eserciti!", pregano altri ancora. La storia reale ritrasformata, dopo e nonostante la "scuola del sospetto" inaugurata da Marx, Nietzsche e Freud, in mascherata teologia della storia, o, al limite, in teofania. Non di "scontro di civiltà" si dovrebbe in realtà in tal caso parlare, bensì di "scontro di inciviltà". La guerra brutalizza e disumanizza l'uomo, chi la fa e chi la subisce. Non risolve le controversie, se non poche volte e solo momentaneamente. E ne crea sicuramente altre, più gravi, gravide di nuove distruzioni e di nuovi eccidi sanguinosi, quasi sempre ai danni di innocenti e inermi popolazioni civili, in un circolo vizioso senza fine. Anzi, senza la soppressione della guerra, del "bellum omnium contra omnes", come emerge dal De cive di Tommaso Hobbes, nessuna "società civile", pacificata, ordinata, regolata dal diritto e da un potere sovrano sarebbe mai nata . Nessuna forma di civiltà sarebbe mai sorta. La guerra insomma è, a tutti gli effetti, l'opposto contraddittorio della civiltà.
Ma forse, per usare la terminologia di Tzvetan Todorov ed Edward Said, Europa, Occidente, Nord sono soltanto termini che indicano "ciò che è familiare", ossia "noi", ed Est, Oriente, Sud "ciò che è estraneo", ossia "loro". La contrapposizione tra Occidente e Oriente, o Nord e Sud, non è che la contrapposizione tra "noi" e "loro". Dove è implicita e indiscussa la nostra superiorità su di "loro", inferiori perché estranei, ed estranei perché a "noi" per principio non parificabili e non omologabili . Non è forse tale la mentalità e persino il sentire spontaneo di molti di noi oggi di fronte al problema degli immigrati (albanesi, est-europei, slavi, neri africani, asiatici, arabi)? "Extracomunitari": cioè estranei, esterni alla "comunità politica e civile europea", da essa esclusi, in essa non includibili. In sostanza, i "nuovi barbari". Un ennesimo episodio di pregiudizio euro- od occidento-centrico.

4. Noi e loro. Contrapposizione o differenziazione? Lo storico liberale Federico Chabod, nell'immediato secondo dopoguerra, ha sostenuto la prima tesi. "Il concetto di Europa - ha scritto - deve formarsi per contrapposizione, in quanto c'è qualcosa che non è l'Europa", ossia "l'Asia". Sarebbe questa l'importante acquisizione fatta dal pensiero greco nel periodo che va dalle guerre persiane fino alle imprese di Alessandro Magno. Sino alla fine del XVIII secolo, più precisamente sino al 1776, data della Dichiarazione d'indipendenza delle colonie americane, l'Asia sarebbe stato il termine di confronto (e di scontro) dell'Europa, della sua storia, della sua civiltà. D'altronde, teorizza Chabod, "il fondamento polemico [dell'autoidentificazione dei popoli e delle civiltà] è essenziale" . Dove "polemico" (da pÒlemoj = guerra; da cui anche polem…zw = faccio la guerra, combatto, e polemikÒj = bellicoso, guerresco) allude alla guerra, alla sua presunta, illusoria necessità storica ai fini dell'affermazione dell'autoidentità culturale dei popoli.
Ma "contrapposizione" è filosoficamente un concetto unilaterale, unipolare (l'altro come mezzo od ostacolo della mia crescita), che nega l'unità, l'interdipendenza, il dinamismo, la convertibilità reciproca degli opposti, la possibilità del loro comune sviluppo, crescita, arricchimento. Nega tutto ciò che è implicito nel concetto bilaterale e dialettico di differenziazione nell'unità. Se l'Asia è la non-Europa, anche l'Europa è la non-Asia; se l'Islam è religione diabolica per il cristianesimo, il cristianesimo lo è per l'Islam. Nella concezione polemologica, che è sempre anche monologica, autoreferenziale, l'altro è il "nemico", l'eretico o infedele satanico, il sottouomo da assoggettare, sconfiggere, annientare. "Occisio infidelis non est peccatum", sentenziava Bernardo di Chiaravalle all'epoca delle Crociate, incautamente riecheggiato oggi negli Usa. Il terrorista della "Jihad" non è un assassino, ma un "eroe" destinato al Paradiso islamico, assicura d'altra parte lo sceicco fondamentalista.
Nella concezione relazionistica, o eterologica , l'altro è il "diverso" da rispettare e aiutare, l'interlocutore col quale dialogare e costruire insieme, il cooperatore a me uguale e paritario nella ricerca della verità. In tal caso, l'identità implica l'alterità, l'auto-riconoscimento comporta l'etero-riconoscimento, "lo stesso" partecipa dell'"altro" (Platone), in un processo di sviluppo reciproco, senza fine. Ha scritto Bachtin: "Essere significa comunicare […] Essere significa essere per l'altro e, attraverso l'altro, per sé. Non posso fare a meno dell'altro, non posso diventare me stesso senza l'altro: devo trovare me stesso nell'altro, trovando l'altro in me (in un riflettersi e accettarsi reciproco)" . Si legge in un antico classico taoista della cultura cinese: "Se oltre me non c'è l'altro, allora io stesso non sono. Ma se io non sono, non c'è nulla che si lasci percepire […] Invero ogni essere è altro da sé, e ogni essere è se stesso […] l'altro proviene dal se stesso, ma se stesso dipende anche dall'altro […] Se stesso è anche l'altro; l'altro è anche se stesso" . L'"altro" non è la mia negazione, ma il mio "alter ego", così come io lo sono per l'altro; l'altro è il mio altro, e io sono l'altro del mio altro, in un gioco di rimandi reciproci interminabile. Nell'antica cultura azteca, l'umanità, anzi l'universo è raffigurato come il cerchio dei cerchi, inclusivo di infiniti cerchi concentrici, in cui ogni cerchio inscrive ed è inscritto in un altro cerchio. E ogni metà di ogni cerchio, per essere completa, implica l'altra metà: l'altro non mi è estraneo, anzi è la mia integrazione, la mia "metà-cerchio", "la mia dualità", il "mio uguale" e viceversa . L'intero è la totalità relazionistica delle parti, sempre dinamicamente strutturata e/o (ri)strutturabile; una parte che si erige a tutto distrugge sé stessa come parte (analogamente, un tutto privo di parti non è un tutto).
Una futura Europa unificata, ipoteticamente affetta, accecata da egocentrismo ed egemonismo, che volesse limitare o misconoscere le peculiarità, i diritti e la dignità altrui, sarebbe simile alla parte che si elevasse a tutto. Con quali conseguenze disastrose per la pace nel mondo, e per la sopravvivenza della stessa Europa, è facile immaginare. 
In realtà nella storia sempre i "noi" includono i "loro", e i "loro" i "noi", in un insopprimibile rapporto di integrazione e reciprocità. La civiltà romana non si è arricchita con la linfa vitale della cultura greca (Chi non ricorda il detto oraziano: "Grecia capta ferum victorem cepit" )? Il cristianesimo dei primi secoli quanti elementi ha assorbito dalla precedente e contemporanea cultura greca e romana? La civiltà medioevale non si è formata con l'apporto e la cristianizzazione dei Germani "barbari" e invasori? La civiltà nord-americana attuale non deve forse tanto del suo perdurante fascino alla sua intrinseca natura multirazziale, multietnica e multiculturale? La civiltà europea, le cui radici affondano nell'antichità greca e romana e nel primo cristianesimo, figlio, per così dire, illegittimo del giudaismo, non è anch'essa il prodotto storico di innumerevoli e inestricabili influenze "esterne"? L'individualismo, l'isolazionismo, l'egocentrismo culturale è mera, astorica, assurda astrazione. 
Secondo alcuni filosofi, studiosi e teorici della politica (da De Maistre a Treitschke a Gentile) la guerra, quando ovviamente non è guerra di sterminio, presenta un indubbio e sostanziale aspetto positivo. Metterebbe in circolazione, in contatto, in simbiosi idee, costumi, culture differenti, e così contribuirebbe allo sviluppo storico e al progresso umano. Ma a questo scopo non basta l'interscambio commerciale e culturale? Le supposte conseguenze positive delle guerre sull'evoluzione umana in realtà sono sorte, se e quando sono sorte, da una vera e propria eterogenesi dei fini: effetti casuali, secondari, indesiderati. D'altronde, il ricorso sistematico alla guerra e la sua giustificazione teorica quale strumento di risoluzione delle controversie tra i popoli (mi riferisco alle teorie della "guerra giusta" o "santa"), riflettono spesso la fase di declino, di tramonto di una civiltà. Nell'inutile, disperato tentativo di autoperpetuazione, la civiltà in declino cerca sovente di riaffermare con la violenza distruttiva delle armi la propria presunta superiorità, separatezza, assolutezza. È accaduto con la guerra di Troia, alla fine della civiltà cretese micenea; con le Crociate, alla fine della civiltà medioevale; con le guerre religiose europee del Seicento, presupposto storico del moderno processo di secolarizzazione e laicizzazione; con le due guerre mondiali, ad un tempo causa ed effetto del declino storico dell'Europa .
L'archetipo della teoria della "guerra giusta" lo si può trovare nel pensiero di Isocrate, retore greco contemporaneo di Platone. Voleva spingere Filippo il Macedone alla conquista della Persia e dell'Asia, per affermare finalmente la superiorità della Grecia sui suoi tradizionali nemici . Ma la Grecia del IV sec. era ormai avviata sulla via irreversibile del tramonto. Nemmeno Alessandro Magno, grande inintenzionale realizzatore del sogno di Isocrate, poteva farla risorgere. Il secolo delle guerre mondiali ha segnato il tramonto delle vecchie potenze europee. L'ansia frenetica di partecipazione dell'Europa odierna al progetto bellico globale antiterroristico statunitense (il programma nominato "War against Terror", o "Enduring Freedom"), non è sicuramente un buon segno. 

5. Civiltà e barbarie. La coppia categoriale nasce nella Grecia antica. B£rbaroj (= colui che parla una lingua straniera, balbuziente, ma anche incolto, incivile, disumano), identificato in genere con "persiano", è contrapposto a ˜llenikÒj (= ellenico, greco, colui che parla greco, ma anche colto, civile, umano). (Difatti barbar…zw = mi porto o parlo da straniero, o persiano, e oƒ barbaro… = "i Persiani", soprattutto in Tucidide) . Civiltà è invece parola di derivazione latina (da Civilitas = condizione del cittadino, ma anche politica, mitezza, a sua volta derivante da civilis = civile, affabile, umano), ma presenta un'evidente sinonimia con i termini greci polite…a (= cittadinanza, amministrazione della città) e politikÒj (= proprio dei cittadini, cortese, civile). Nel mondo antico greco-romano l'appartenenza politica, il possesso della cittadinanza, dello status di civis, di cittadino, si configura come il criterio principale di discrimine tra civiltà e barbarie, mitezza di costumi e brutalità, umanità e disumanità.
Non diversa sembra la situazione odierna nel mondo europeo e occidentale. Negli Usa una volta si usava la parola "wops" (= without papers, senza documenti) per indicare gli immigrati italiani indesiderati, ammassati in un luogo di fronte a New York, in attesa del rimpatrio (come raccontava Giuseppe Antonio Borgese nel suo Atlante americano), nell'Ellis Island, l'"Isola delle Lacrime", metafora dell'Inferno dantesco. Oggi in Francia si indica con la stessa espressione, "sans papiers", gli immigrati "extracomunitari" clandestini, soprattutto centro- o sud-africani. Senza documenti di riconoscimento, non hai diritto di cittadinanza, non sei civis. E senza essere civis, non sei depositario di diritti, non hai "il diritto di avere diritti", sei ""fuorilegge"", perché la tua esistenza "non è contemplata dalla legge" . È come se fossi inesistente. Inesistente in quanto uomo. "Il primo passo decisivo verso il dominio totale - ammonisce Hannah Arendt - è l'uccisione del soggetto di diritto che è nell'uomo", l'eliminazione della sua "personalità giuridica" . L'inesistenza giuridica rischia, passo dopo passo, di diventare l'equivalente di esistenza animale, o di inesistenza umana. E di un uomo che non esiste, si può fare ad libitum tutto ciò che si vuole, senza alcuna remora morale o conseguenza penale. 
Ma quella di "civiltà e barbarie" è una coppia categoriale relativa, fluida, mutevole, in cui i due termini storicamente si rovesciano paradossalmente l'uno nell'altro. I Persiani erano per i Greci "oƒ barbaroƒ", i barbari per eccellenza (Isocrate teorizzava il diritto della Grecia alla supremazia sull'Asia, ad impadronirsi delle sue immense ricchezze). I Greci in quanto seguaci della religione pagana diventano a loro volta "barbari" per gli Ebrei, o per i primi cristiani e per la Christianitas medioevale, che nel paganesimo vedeva la negazione della "vera religione", e dunque dell'umanità. Ma nel Rinascimento, la Grecia pagana ritorna ad essere, come nell'età romana, la forma più alta di "humanitas", di umanismo o civiltà umanistica. Il Medioevo cristiano è definito barbaro, superstizioso, rozzo, incolto, incivile dall'Illuminismo francese (Voltaire, D'Holbach ecc.). Ma successivamente la Christianitas medioevale è esaltata come il modello supremo di civiltà dal Romanticismo, e in particolare, oltre che da Friedrich Schlegel, soprattutto da Novalis, che contrappone la fervida, intimistica, monolitica religiosità cattolica medioevale (distrutta poi dalla Riforma luterana, radice del giacobinismo) alla razionalista, atea e corrotta Europa moderna identificata con la Francia dei Lumi . Al contrario, il grande storico francese François Guizot, nelle sue famose lezioni sulla storia europea (1828-1830), data l'inizio della civiltà europea dalla caduta dell'Impero romano. Ma sostiene al tempo stesso il primato spirituale della Francia nel moderno processo di "civilizzazione europea", contrapponendo Francia e Germania . Ecoci così alla nuova, inedita teorizzazione della contraddizione tra Civilisation francese e Kultur tedesca, che è stata tra le cause principali di due tragiche guerre mondiali nel cuore dell'Europa. Oggi sembra per fortuna definitivamente superata nel progetto europeistico in faticoso corso d'attuazione. La nuova "forma mentis" europeistica, nell'auspicabile ipotesi che fosse estesa dall'Europa al mondo intero, introducendo così ovunque lo spirito di tolleranza, comprensione e collaborazione reciproca tra gli individui e tra i popoli caratteristico di alcuni dei momenti più alti della storia europea, il Rinascimento e l'Illuminismo, potrebbe forse condurre all'abolizione completa e definitiva della coppia oppositiva "civiltà-barbarie", rivolta spesso, oggi come ieri, a denigrare, sminuire e svalutare a scopo di dominio e di sopraffazione i popoli e le culture extra-europee. 
In realtà quella di "barbarie" è sin dall'inizio una categoria polemologica, adatta alla consacrazione del dominio, della conquista, della sottomissione dell'"altro", del "diverso", sottoposto ad un processo di deumanizzazione, degradato a "nemico" da odiare, combattere e annientare, a ostacolo da travolgere e schiacciare, incenerire. Nella Grecia antica lo "schiavo" è il barbaro, il prigioniero di guerra, privato della dignità di uomo, animalizzato e cosificato. Per Aristotele, come è noto, lo "schiavo" lo è "per natura", in quanto essere passionale e istintivo, non razionale, un mezzo uomo, più prossimo agli animali che agli uomini, uno "strumento animato" . Non a caso "schiavo" è la volgarizzazione italiana del termine latino-medioevale "sclavus" o "slavus" (= prigioniero di guerra), che allude alla condizione di servitù delle popolazioni slave nel Medioevo. Nell'età antica non c'era la parola, ma la cosa. Si trattava degli Sciti, antica popolazione della Russia meridionale, tradizionalmente in guerra con i Greci e dalle cui sconfitte i Greci ricavavano il maggior numero di schiavi. Questa ideologia non è forse all'origine del "Novus Ordo" mondiale sognato da Hitler, in cui i popoli est-europei e slavi erano destinati a servire in condizioni di schiavitù la stirpe tedesco-ariana dei "Signori della terra"? Barbari, sottouomini, "homunculi" erano d'altronde chiamati i popoli amerindi dai feroci Conquistadores spagnoli dell'America centro-meridionale . La costruzione dell'Europa unita non può prescindere da un bilancio autocritico severo e coscienzioso di tali ideologie e di tali eventi, come di tanti altri non dissimili, che sono, purtroppo, parte integrante e costitutiva della sua storia. Dal modo come farà i conti col suo passato, dipenderà il suo futuro.
Con la guerra il nemico esterno, sconfitto e incatenato, schiavizzato, si tramuta in potenziale nemico interno, pericoloso per la conservazione dell'ordine costituito. Il termine "barbaro" diventa così sinonimo, nel moderno mondo europeo, di "sovversivo" e "rivoluzionario". "I nuovi barbari fra noi": così i teorici della Restaurazione, Edmund Burke e Mallet du Pan, amavano definire i giacobini dell'Ottantanove francese. "Gli Unni e i Vandali della nostra civiltà" diventeranno poi i rivoltosi comunardi francesi del 1871 sotto la penna di Friedrich Strauss ed Ernst Renan. Senza dire della cosiddetta "barbarie comunista e sovietica", un vero e proprio topos della pubblicistica occidentale del Novecento. I due concetti di nemico esterno e nemico interno si intrecciano e si fondono nella nostra storia recente. Benedetto Croce identificava nell'Urss e nel comunismo non solo l'autocratismo illiberale, ma anche la negazione totale della "libertà, ovvero dell'umanità" . Giovanni Gentile considerava la "Russia bolscevica" l'"Antieuropa, perché negazione della libertà e della realtà spirituale", concludendo con la profezia: "Porta Inferi non praevalebunt" I quasi cinquant'anni di "guerra fredda" non sono stati forse caratterizzati dalla contrapposizione tra Occidente e Urss, "mondo libero" e "dittatura sovietica"? Ancora recentemente, nel 1990, subito dopo il crollo del muro di Berlino, il sociologo inglese di origine tedesca Ralf Dahrendorf, allineandosi ad una lunga tradizione euro-occidentale slavofoba, ha scritto che ad Est l'Europa coincide col confine russo-sovietico, dunque non potrebbe allargarsi fino a includere Vladivostok . Russia (sovietica? o postsovietica?) e civiltà europea (di ieri? o anche di oggi?) dunque si escludono?
L'ideologia dell'esclusione dell'"altro" dalla civiltà, o meglio dalla civiltà europea identificata senz'altro con la civiltà, con l'unica civiltà al mondo, non porta a nulla di buono. Non può servire né alla nuova Europa né alla pace mondiale né alla costruzione di valori umani, morali e civili universalistici. Tale costruzione presuppone al contrario l'apporto attivo, vitale, dialettico delle culture di tutti i popoli del mondo. Senza distinzioni ed esclusioni pregiudiziali e aprioristiche. 

6. Libertà e dispotismo. Anche questa coppia categoriale nasce in Grecia. Dapprima adottata come criterio descrittivo di distinzione, quasi a difesa della propria identità (alla Persia ricca e potente, ma governata in modo dispotico, la Grecia contrapponeva la democrazia della polis, ossia la sua superiorità politica a compenso della sua inferiorità economica), la coppia assume poi un significato assiologico. "Illibertà", o "dispotismo orientale o asiatico", diventa così sinonimo di disvalore assoluto. Già per Aristotele "i barbari e gli Asiatici" si distinguevano dai "Greci ed Europei" a causa della loro indole "servile", della loro "naturale" disposizione a "sottostare al dominio dispotico senza risentimento" . Giudizio che poi, sostanzialmente immodificato, si ritrova nella modernità, prima che in Hegel e Montesquieu, già in Machiavelli. Nel cap. IV del Principe, la figura del "Turco", monarca depositario di un potere assoluto, incondizionato, è contrapposta a quella del "re di Francia", il cui potere era limitato, bilanciato da una molteplicità di contropoteri aristocratico-nobiliari . "Dispotismo orientale" è categoria negativa fondamentale nell'Ésprit des lois de Montesquieu e nelle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel. Nel Novecento, identificato con "totalitarismo", è stata usato espressamente per espungere, per escludere l'Urss dalla storia e dalla civiltà occidentale, anzi dalla civiltà tout court .
Non che non ci siano differenze tra libertà e dispotismo, soprattutto se per "libertà" si intende, all'interno della teoria delle forme di governo, governi "democratici", fondati su "Stato di diritto", divisione dei poteri, garanzia dei diritti individuali politici, civili e sociali. Tuttavia, nell'ambito della riflessione teorica generale sul "politico", o sulla natura dello Stato, i due termini non possono essere separati e contrapposti in toto. Ogni Stato, qualunque sia la sua forma di governo, scrive Gramsci nei Quaderni, è unità dialettica, storicamente determinata e mutevole, di "forza e consenso, società politica e società civile, dittatura ed egemonia". Nella concretezza storica, si può passare da una massimo di dittatura (o dispotismo) ad un minimo di egemonia (o democrazia), e viceversa, ma non è ipotizzabile la scomparsa di uno dei due termini . Se questo è vero, non può esistere uno Stato dispotico o dittatoriale in assoluto, dove manchi una qualche forma di decentramento, di frammentazione del potere, di libertà e consenso dal basso. Il bimillenario "Impero celeste" cinese aveva una struttura gerarchico-piramidale (con al vertice l'Imperatore e, al di sotto, la potente burocrazia mandarinale) e al tempo stesso policentrica (regionalizzazione feudale, relativa autonomia dei villaggi ecc.). Il che spiega il fenomeno, spesso ricorrente nella lunga storia cinese, dell'insubordinazione armata dei "Signori della guerra" e delle rivolte autonomistiche contadine. Perfino Hitler, oltre a non essere privo di un almeno parziale e tacito consenso anche dei ceti sociali più bassi, era condizionato da una molteplicità di centri di potere in competizione (partito, "Fronte del lavoro", polizia speciale, esercito, grandi gruppi industriali ecc.), rispetto ai quali il "Führer" era il mediatore, il coordinatore, l'armonizzatore, "il luogo del compromesso finale, piuttosto che quello della sovranità" . Il che ha suggerito l'immagine del nazismo quale moderno "Behemoth", il biblico mostro simbolo del caos e del disordine permanente .
Analogamente, nella realtà storicamente data non può esistere nemmeno un regime "democratico" in assoluto. La storia, del resto, è il regno non dell'assoluto, ma del relativo. Ne segue che la divisione politica del mondo in due parti separate e ipostatiche, il "mondo libero" e quello "non libero", che opponeva l'Occidente "libero" ieri al sovietismo, e oggi a certi regimi arabi o asiatici, si rivela mera e ingannevole costruzione ideologica, che non rispecchia, ma nasconde o deforma la realtà effettuale. La natura progressiva dell'Unione Europea non può dipendere dalla sua appartenenza ad un presunto "mondo libero", ma dalla sua capacità di darsi istituzioni quanto meno possibile autoritarie e burocratiche e quanto più possibile democratiche e popolari, garantite da un elevato grado di consenso libero, attivo e partecipativo dei cittadini.
D'altronde, "libertà" e "democrazia", così come noi europei le abbiamo intese finora, non sono valori assoluti, sovrastorici, ma condizionati e relativi alla nostra storia e alla nostra tradizione. In altri contesti culturali, o sono sconosciuti o hanno significato diverso . E oggi, a causa della globalizzazione, sono entrati in crisi, almeno nella vecchia forma, anche in Occidente. Tanto che Ralf Dahrendorf parla di una "nuova democrazia dopo la democrazia" ("Dopo la democrazia, noi dobbiamo e possiamo costruire una nuova democrazia") . Quei valori non possono dunque essere esportati sic et simpliciter, né tantomeno imposti con la forza, che al contrario ne produrrebbe un rigetto preventivo, totale. Vanno invece ripensati. Il dialogo inter-culturale egualitario e paritario tra i popoli della terra, nel reciproco rispetto, può sicuramente facilitarne il ripensamento e la loro eventuale traduzione appropriata in altri linguaggi politici e in altre culture. A patto che anche l'Europa superi autocriticamente i propri limiti storici e ideologici, e sia disposta ad imparare dagli altri. Molto più di quanto non abbia saputo fare finora. 

7. Per una smitizzazione dell'idea di Europa e dell'eurocentrismo. Per una critica dissacrante dell'illusione eurocentrica, alla cui base c'è l'assolutizzazione di coppie categoriali oppositive come Occidente e Oriente, civiltà e barbarie, libertà e dispotismo o dittatura, si può rinviare a tre autori classici della letteratura francese: Montaigne, Montesquieu e Voltaire. Di Montaigne è noto il paradossale elogio del cannibalismo. Con tale orrificante epiteto, i resoconti di viaggio dei Conquistadores e dei loro accompagnatori miravano chiaramente alla disumanizzazione ideologica dei nativi amerindi, per giustificarne lo sterminio. Il grande moralista francese ne fa provocatoriamente negli Essais, scritti alla fine del Cinquecento, uno specchio rovesciato dei vizi e difetti della civiltà francese ed europea del tempo. "Mi sembra", egli dice, che in quei popoli "non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio […] se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi" . Il di "barbarie" nasce da un lato dai nostri limiti conoscitivi, dalla nostra incapacità di comprendere ciò che a noi è estraneo, dall'altro dall'illecita trasformazione delle nostre idee, opinioni e costumi in certezze e verità dogmatiche e assolute. "Possiamo ben chiamarli barbari", concede Montaigne, ma solo "se li giudichiamo secondo le regole della ragione", non se li confrontiamo "con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie" .
Montesquieu nelle Lettres Persanes, pubblicate nel 1721, fa scaturire dalla penna di un immaginario visitatore persiano una critica spietata dei "mali" politici, sociali e religiosi della Francia del tempo, dalle guerre intestine all'intolleranza religiosa ("mai tante guerre civili come nel regno di Cristo" ), dal predominio del bene privato sul diritto pubblico alla corruzione dei cortigiani e dei funzionari statali, dalle pretese di primato del papa sul monarca a quelle simmetricamente opposte del monarca sul papa. Nella finzione letteraria del pamphlet, i "costumi persiani", orientali, apparivano di gran lunga preferibili a quelli tipici dell'"Ancien Régime" francese o europeo.
Di Voltaire va ricordata la polemica, svolta nell'Avant-propos dell'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations (1756), col vescovo Bossuet, il quale nei suoi Discours sur l'Histoire Universelle (1681), aveva trattato sdegnosamente gli Arabi, escludendoli dal disegno provvidenzialistico che a suo parere aveva presieduto allo svolgimento della storia europea dalle sue origini bibliche e cristiane fino alla monarchia francese attuale. E aveva inoltre ignorato, dimenticato gli Indiani e i Cinesi. Voltaire, al contrario, rivendica la grandezza dell'impero feudale e della religione islamica, nonché la proverbiale saggezza, le invenzioni, l'arte del buon governo, l'amore del bene pubblico, la tolleranza religiosa tipica degli Indiani e dei Cinesi. Il quadro era forse troppo idealizzato, appositamente disegnato dal polemista francese in funzione anticlericale e antiassolutistica. Resta che nella sua visione cosmopolitica e universalistica della civiltà ogni apporto risultava valorizzato e integrato nella sua originalità, peculiarità e diversità.
Tre autori, tre opere che, sotto questo riguardo, dovrebbero essere di insegnamento e ammonimento per noi costruttori della nuova Europa . Con la loro tecnica conoscitiva di distanziamento, di estraneazione da sé stessi e dai pregiudizi della propria epoca e civiltà, di distacco dall'angustia del proprio particolare angolo visivo, ci aiutano a capire che solo svestendo, cambiando i nostri panni, guardandoci con gli occhi altrui, da un immaginario, metaforico "Altrove/Al di fuori", possiamo essere in condizione sia di conoscere e valutare le ragioni altrui sia di prendere coscienza di noi stessi, dei nostri valori e dei nostri limiti . 

8. Due opposte concezioni della storia dell'idea d'Europa. Quale rapporto intercorre tra il progetto europeistico attuale e la storia passata dell'Europa? Di continuità o di rottura? La prima tesi è stata sostenuta da Carlo Curcio, che ha sottolineato la rilevanza dei tratti comuni delle varie idee d'Europa dalla Grecia antica ad oggi, suggerendo l'ipotesi di un processo di acquisizione e di crescita su sé stessa, a spirale, di un'idea europeistica che troverebbe la sua sintesi finale dopo il 1945. Ancora più radicale la posizione di Denis de Rougemont, per il quale, in sintonia col classico Maometto e Carlomagno di Henri Pirenne, l'Europa sarebbe esistita da almeno mille anni, dall'epoca carolingia, subendo poi un tragico arresto a causa della rivalità degli Stati-nazione europei dell'Otto-Novecento . Lo studioso francese ha rivendicato inoltre in chiave apertamente eurocentrica una funzione universale e universalizzante, storico-mondiale, dell'Europa, che con un "fiat", quasi il biblico Jahweh, avrebbe dato origine al mondo intero. Ma non occorrerebbe tuttavia interrogarsi a fondo sulla positività o negatività dei risultati di tale supposto processo di creazione e di europeizzazione del mondo?
Della seconda tesi si è fatto invece interprete Jean-Baptiste Duroselle, il quale ha sostenuto che l'europeismo del post-1945 è un'idea completamente nuova rispetto al passato. "Essendo l'Europa una costruzione dello spirito umano a partire da una realtà geografica mal delimitata, abbiamo visto, dacché gli uomini vi riflettono, un'immensa varietà di Europe" . Tante idee di Europa diverse e tra loro incompatibili, incompossibili.
Forse la verità, o il verosimile, è nel mezzo. Vi sono nel passato elementi dispersi e ricomposti, filoni interrotti e riannodati, suscettibili di trovare una nuova sintesi nel progetto europeistico attuale. Si tratta di fattori che riguardano il piano politico (Stato di diritto, libertà politiche e civili, istituzioni democratico-rappresentative, legislazione e diritti sociali: ossia i valori teorici e istituzionali ereditati dal liberalismo e dal socialismo), il piano culturale (le humanae litterae, le scienze naturali ed esatte e le loro applicazioni tecnologiche), e quello economico (le esperienze lavorative e produttive e il sapere teorico-pratico connesso all'industrialismo moderno). È questa l'eredità culturale e spirituale che la nuova Europa potrebbe e dovrebbe ribadire e potenziare, valorizzandone la specificità e l'originalità. Ma al tempo stesso liberandola criticamente dalle unilateralizzazioni, dagli snaturamenti e dalle distorsioni storiche e ideologiche che tanto "male" hanno provocato nel passato alla vecchia Europa e al mondo intero. Si tratta di un complesso, nel contempo unitario e pluralistico, di valori e cultura umanistica e di saperi tecnico-scientifici, che affonda in gran parte le sue radici storico-ideali nell'antichità greco-romana e nel primo cristianesimo, e che ha forse, come si è già detto, nel Rinascimento e nell'Illuminismo i suoi momenti più alti di sviluppo. La globalizzazione, se non si risolve in una ulteriore, devastante forma di imperialismo culturale dell'Occidente, sembra contenere invero i presupposti e le condizioni favorevoli per una nuova, inedita, unitaria civiltà mondiale multi- e inter-culturale, al cui appuntamento l'Europa non può mancare. Con il consapevole apporto dei propri valori storici e ideali, ma senza arroganza, illusioni o pregiudizi eurocentrici, purtroppo duri a morire

9. Per una critica dell'eurocentrismo in filosofia. Oltre a quello hegeliano, l'eurocentrismo ha goduto, nella storia recente, di altri importanti tentativi di teorizzazione e consacrazione filosofica. Come nell'ultimo Husserl e in Heidegger. Riflettendo sulla crisi dell'Europa degli anni Trenta, Husserl era giunto alla conclusione che dalla crisi l'Europa sarebbe potuta uscire soltanto con la consapevolezza, nata con la "filosofia" nella Grecia antica, dell'"immanenza nell'umanità europea" di una "teleologia storica di fini infiniti" . Era così riaffermata palesemente la "missione dell'Europa" di europeizzazione del mondo, anche se concepita solo in termini filosofico-culturali, e non più, come nel passato, colonialistico-militari. Nello stesso anno, 1935, in pieno regime nazista, Heidegger, da parte sua, aveva proposto un'incalzante, progressiva identificazione tra tre concetti: 1) "destino metafisico della terra"; 2) "destino storico dell'Europa"; 3) "missione storica del popolo tedesco considerato come centro dell'Occidente". A suo parere, la "domanda metafisica fondamentale" sul "destino storico dell'Essere", posta alle origini greche della storia filosofica dell'Occidente, era caduta totalmente in oblio nell'Europa presente, che correva il rischio di essere schiacciata nella "morsa tra America e Russia", paesi degradati dall'onnipervasività della tecnica e dalla massificazione dell'individuo. L'unica speranza di salvezza della terra, dell'Occidente e dell'Europa dal "depotenziamento dello Spirito", dal diabolico "oscuramento del mondo", era affidata alla Germania e alla sua supposta capacità di tornare alle origini . Tolto l'involucro speculativo, chiaramente l'euro-centrismo husserliano in Heidegger si trasformava in germano-centrismo.
Anzi, nelle posizioni dei due filosofi tedeschi, come del resto in Hegel, si nota con facilità una paradossale sopravvalutazione narcisistica di sé stessi, della propria filosofia. Per Hegel, il culmine della "Weltgeschichte" era l'Autocoscienza, e l'Autocoscienza era l'hegelismo. Una palese tautologia. Secondo Husserl, dalla crisi dell'Europa si usciva col ritorno ai princìpi della filosofia greca, la cui riscoperta coincideva con la formulazione della fenomenologia trascendentale husserliana. Un'altra sequenza di passaggi tautologici. Per Heidegger, il "destino storico dell'Essere", e quindi, procedendo per successive riduzioni, quello dell'Occidente, dell'Europa e della Germania, si identificava col destino storico dell'heideggerismo, della filosofia heideggeriana dell'Essere. Una terza serie di tautologie. La forte componente egocentrica, o egologica, dell'eurocentrismo filosofico è indubitabile.
Analoga la posizione espressa nel 1991 da Jürgen Habermas, considerato uno dei maggiori filosofi viventi. Pur criticando le "aspirazioni imperiali" e le "fissazioni narcisistiche" di un certo eurocentrismo del passato, tuttavia riteneva allora che un ulteriore progresso storico, economico e politico, esemplare per il mondo intero, dopo il crollo dell'Urss, fosse possibile solo "all'Ovest", "dove le forze produttive e gli Stati di diritto democratici sono più avanzati". E concludeva osservando "non senza simpatia come la storia del mondo conceda una seconda chance all'Europa unita" . La superiorità dell'Europa e la sua missione di europeizzazione del mondo erano riaffermate con chiarezza. Le critiche alle tentazioni imperialistiche e narcisistiche dell'Europa discendevano direttamente dalla stessa filosofia sociale e morale dialogica di Habermas (nota come "etica del discorso" o "teoria dell'agire comunicativo"). Indubitabile, anche in questo caso, la componente egocentrica.
Sul fronte opposto all'eurocentrismo si collocano lo studioso delle religioni Réné Guénon e il filosofo della scienza Paul Feyerabend. Il primo contrappone alla cultura scientifico-quantitativa, tecnico-materiale europea e occidentale, che ha segnato in modo irreversibile la crisi del mondo moderno, la cultura religiosa ed esoterica, qualitativa e spirituale, della cosiddetta "Tradizione", che avrebbe la sua genesi e i suoi punti alti nella Cina e nella India antiche, ossia nel taoismo e nell'induismo, e poi nell'Islam, religione alla quale lo studioso francese ad un certo punto "si convertì", decidendo di trasferirsi per tutta la vita in Egitto . Qui l'eurocentrismo è rovesciato di segno. Ma i problemi da esso posti, si trasferiscono intatti, e irrisolti, nella nuova configurazione speculativa, sostanzialmente islamocentrica.
Feyerabend mira a distruggere il mito del razionalismo occidentale, fondato sulla credenza dell'universalità e oggettività dei metodi e dei risultati delle scienze. "Criticherò due idee che sono spesso state usate per rendere rispettabile l'espansione intellettuale dell'Occidente - l'idea di Ragione e l'idea di Oggettività" . Al dogmatismo della "Ragione" filosofica e scientifica occidentale, matrice di una cultura caratterizzata da arroganza, "uniformità" e "splendida monotonia", il noto epistemologo preferisce contrapporre una concezione "cacofonica", laica, storica, pluralista e relativista della conoscenza, che valorizzi gli approcci, le metodologie e le acquisizioni di tutte le culture del mondo, comprese quelle "primitive". E che preveda, egli dice, un tipo di interazione "fra culture A, B, C, ecc." non strutturato, né coerente o gerarchico, ma mutevole, orizzontale, casuale, episodico .
Nella polemica contro l'occidentalizzazione del mondo, che ha cancellato dalla storia intere culture, Fayerabend, sollecitato dal suo relativismo scettico e dal suo empirismo radicale, probabilmente passa il segno. Ha sì ragione nell'opporsi con sarcasmo all'astratto universalismo eurocentrico di Husserl: "Noi filosofi - scrisse quest'ultimo - siamo i funzionari dell'umanità", perché, "nel nostro filosofare", "nella nostra vocazione interiore personale", portiamo "la responsabilità per l'autentico essere dell'umanità" . Facile, e dissacrante, l'obiezione dell'epistemologo. "Io penso", rileva con durezza senza entrare nei meandri della speculazione husserliana, che tale dichiarazione "riveli una stupefacente ignoranza (che cosa ne sa Husserl dell'"autentico essere" dei Nuer?), una fenomenale presunzione (esiste un solo individuo che abbia una tale conoscenza di tutte le razze, le culture, le civiltà da essere in grado di parlare dell'"autentico essere dell'umanità"?) e, naturalmente, un considerevole disprezzo per chiunque viva e pensi secondo linee differenti" . Ma il principio della differenza non autorizza né legittima il radicale anarchismo gnoseologico e culturale di Feyerabend. Su queste posizioni non potrebbe mai nascere una civiltà unitaria inter-culturale mondiale, intessuta di scambi liberi ma costruttivi, né un mondo umano pacificato, che abbia messo al bando la guerra e l'oppressione. Paradossalmente, "i più forti" continuerebbero a dominare "i più deboli" . 

10. Quale Europa? Innanzitutto sul piano politico internazionale. Polo autonomo in un mondo multipolare, policentrico (Usa, Cina, Giappone ecc.) organizzato nell'Onu o alleata-subordinata agli Usa in un mondo monopolare, dominato dal "pensiero unico"? Dal 1945 (crollo del nazifascismo) al 1991 (crollo dell'Urss), sotto la psicosi di un presunto espansionismo sovietico, è stata soprattutto l'avamposto politico, militare e ideologico degli Usa in funzione antisovietica. Ha assunto, nell'ultimo decennio, un ruolo autonomo? Sembra di no. Perlomeno sotto il riguardo militare. Come provano i fatti (dalla guerra contro l'Irak a quella contro la Serbia all'attuale, in Afghanistan). È urgente reinterrogarsi sul tipo di collocazione internazionale dell'Europa d'oggi. A fianco degli Usa, contro il resto del mondo, o dentro l'Onu, a fianco dei popoli del mondo, a svolgere un ruolo di mediazione e pacificazione internazionale? Interventismo bellico e militare in ogni angolo del pianeta, magari sotto il pretesto umanitario, o pacifismo attivo, costruttivo, solidale, per tradurre in atto, estendere e potenziare il complesso di normative, strumenti, e organismi di diritto internazionale? L'emancipazione anche parziale dall'influenza deleteria delle coppie categoriali di cui sopra (Occidente/Oriente, noi/loro, libertà/dispotismo), che hanno punteggiato la storia pregressa dell'Europa sin dalle sue lontane origini, appare tutt'altro che un fatto assodato o definitivo.
Questo complesso di problemi viene ancora più chiaramente alla luce se ci si chiede a quale visione dei rapporti internazionali ispirarsi. Kant, nel Progetto per la pace perpetua (1795), sosteneva che solo una "repubblica universale", una "federazione di liberi Stati" (dotati di una costituzione "repubblicana", ossia, nel linguaggio politologico odierno, "democratico-rappresentativa"), capace di estendersi senza guerre e violenza a tutti gli Stati e popoli della terra, poteva salvare al tempo stesso la pace e la libertà. Un solo, leviatanico Stato o Superstato dispotico mondiale, che avesse divorato, incorporato in sé tutti gli altri singoli Stati, estendendosi come un gigantesco mollusco all'intero pianeta, avrebbe garantito la pace, ma non la libertà . Non era forse questo l'agognato Novus Ordo hitleriano? La questione è attuale ancora oggi. Per quale delle due opposte prospettive l'Unione Europea intende lavorare? I fatti sembrano finora testimoniare che l'Europa non va certo, anche se faticosamente, nella direzione opposta a quella auspicata da Kant. E per due motivi. Sia perché si è verificato un progressivo allargamento dei suoi confini geopolitici, col passaggio del numero di paesi membri dal sei iniziale all'attuale quindici. Sia perché ai paesi membri, e a quelli che aspirano a diventarlo (i 12 in lista d'attesa, che estenderebbe l'Europa unita ad Est, fino al confine russo, e a Sud, fino a includere la Turchia) si richiede, tra l'altro, una sorta di certificato di garanzia "democratica" (Stato di diritto rappresentativo e tutela dei diritti individuali). 
L'Unione europea è già oggi la più grande realtà multinazionale del mondo (370.000 abitanti). L'ammissione futura di altri paesi, come quelli della Bielorussia e la Turchia (ma si parla anche del Marocco e altri paesi costieri nordafricani) ne accrescerebbe in modo inaudito la varietà etnica, culturale e religiosa. L'idea europeistica di De Gaulle ("l'Europa dall'Atlantico agli Urali") e quella di Gorbaciov (la "Casa comune europea"), avanzate a suo tempo in modo in parte velleitaria e con finalità in parte strumentali, sembrano oggi cominciare ad uscire dall'orizzonte irrealistico di desiderabilità. Se si prescinde da altre considerazioni, non è forse eccessivo ipotizzare che sotto questo riguardo siamo innanzi ad uno dei più nuovi, grandi e avanzati esperimenti politici della storia umana.
Ma ci sono altre condizioni importanti e decisive da soddisfare. A partire dalla necessità di democratizzazione dei processi decisionali a tutti livelli. Non mi riferisco solo al livello politico-istituzionale, dove è ancora quasi tutto da fare. L'idea federalistica europea è tuttora nel libro dei sogni. E poi, quale federalismo? Un'"Europa debole", fatta dall'unione di Stati sovrani che collaborano, restando indipendenti, solo sotto certi aspetti e su questioni di non grande rilievo, come vogliono gli euroscettici? O un'"Europa forte", uno Stato federale (gli "Stati Uniti d'Europa"?), con organismi istituzionali centrali, fornito, sulle questioni decisive, di un potere coattivo sugli Stati membri, come vogliono gli euroentusiasti? Questa tematica, in realtà, è rimasta fino ad ora completamente sullo sfondo. Anzi, manca a tutt'oggi persino una chiara precisazione e distribuzione dei compiti e delle funzioni, tra l'altro molto limitate, dei vari organi istituzionali dell'Unione europea (Commissione, Consiglio dei ministri, Parlamento ecc.) . Gli Stati membri hanno sì rinunciato ad alcune prerogative sovrane (eliminazione delle barriere doganali, libera circolazione delle merci, dei capitali, delle persone, coordinamento delle politiche agricole ecc. fino all'attuale sostituzione delle monete nazionali con la moneta unica). Ma continuano ad affidare in questioni importanti il potere decisionale a organismi tecnici fuori di ogni controllo democratico, dal basso (l'eurotecnocrazia, di cui parlava Altiero Spinelli alla fine degli anni Sessanta, e il cui centro è oggi la Banca centrale europea). Stigmatizzando il carattere "intrinsecamente non democratico" delle attuali istituzioni europee, Dahrendorf ha ricordato la maligna battuta di spirito degli euroscettici secondo cui, "se l'Unione europea chiedesse di diventare essa stessa membro della Ue, non potrebbe essere ammessa" . 
Si tratta di veri e propri paradossi oggettivi, rilevati da numerosi politici e studiosi ("l'Europa gigante economico e nano politico"; "una moneta senza Stati, e Stati senza moneta"). Certo, la "Carta sociale" di Maastricht e la "Carta dei diritti fondamentali dell'Ue", approvata da poco, sono un buon presagio per chi auspica un'Europa politica fondata sulla divisione dei poteri, la protezione dei diritti fondamentali individuali e lo "Stato sociale". E che sia inoltre capace di misurarsi in forme progressiste con i difficili problemi posti dalle dinamiche della globalizzazione . Ma resta fortemente problematica l'individuazione e la messa a punto dei nuovi strumenti istituzionali e delle nuove forme sovranazionali idonee a garantire l'esercizio della "democrazia" e dei diritti di cittadinanza europei.
Un'altra domanda di fondo non può essere elusa: sarà l'Europa dei capitali o l'Europa dei popoli? Non si tratta, ovviamente, di riproporre oggi, dopo il crollo del blocco sovietico, l'alternativa tra capitalismo o comunismo, che ha segnato il secolo scorso, e della quale tuttavia sarebbe semplicistico liberarsi con qualche sbrigativa battuta. Ma di stabilire quale rapporto debba esserci tra pubblico e privato, o tra intervento statale e mercato, o tra profitto imprenditoriale e soddisfacimento del fabbisogno sociale, o tra attuale modello di sviluppo industriale e protezione dell'eco-sistema.
Dal modo come l'Europa affronterà tali questioni, la cui soluzione sembra peraltro ineludibile e improcrastinabile, dipenderà non solo la sua futura fisionomia, ma anche quella del mondo del nuovo millennio. 



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Montesquieu, Charles Louis de Secondat barone di (1996), Lettere persiane, con introd. e note di J. Starobinski, tr. it. di G. Alfieri Todaro-Faranda, Rizzoli, Milano.

Neumann, Franzm (1999), Struttura e pratica del nazionalsocialismo, ediz. it. a cura di M. Boccianini, introd. di E. Collotti, Bruno Mondadori, Milano. 

Novalis, Friedrich (1982), La Cristianità, ossia l'Europa, in Id., Opere, a cura di G. Cusatelli, Guanda, Milano.

Said, Edward (1999), Orientalismo, a cura di S. Galli, Feltrinelli, Milano. 

Todorov, Tzvetan (1990), Michail Bachtin. Il principio dialogico, tr. it. di A. M. Marietti, Einaudi, Torino.
- (1991), Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, tr. it. di A. Chitarin, Torino, Einaudi. 
- (1992), La conquista dell'America. Il problema dell'"altro", tr. it. di A. Serafini, nota introduttiva di P. L. Crovetto, Einaudi, Torino. 

Traverso, Enzo (2001), Con le spalle rivolte al futuro, intervista a cura di F. Rahola, "il manifesto", 5 dic., p. 12.

Wittfogel, Carl August (1968), Il dispotismo orientale, tr. it. di R. Pavetto, voll. I-II, Vallecchi, Firenze.

Zhuang-zi [Chuang-tzu], a cura di Liou Kia-hway, Adelphi, Milano, 1992. 

Note

1) Per queste e altre notizie e informazioni mitologiche, storiche e bibliografiche, relative alla storia dell'idea d'Europa, si può confrontare, oltre ad un buon dizionario mitologico, storico o enciclopedico, il noto studio di Chabod 1961; ma si v. anche Curcio 1958 e Duroselle 1964. - Sull'origine e la storia dei nomi "Europa" e "Asia", cfr il classico studio di Mazzarino 1947, pp. 41-104. 
2) Sulla complessa simbolica della civiltà della Grande Dea, cfr. Gimbutas 1990.- Sul passaggio dall'antica civiltà matrilineare pregreca alla civiltà patrilineare greco-classica, di cui è documento straordinario l'Orestiade di Eschilo, cfr la classica opera di Bachofen 1988. - Sull'argomento, si v. anche il bel libro di Eisler 1996.
3) Dal semitico "erebu", secondo un'altra discutibile etimologia, deriverebbe anche il termine "arabo", col quale gli antichi abitanti della Mesopotamia indicavano le popolazioni tribali ad Occidente della valle dell'Eufrate (Cfr Lewis 2001, p. 4). Il che fornisce un'ulteriore dimostrazione dell'estrema relatività geografica, storica e culturale dei termini in questione. 
4) 1973, I, pp. 263, 273. 
5) 1995, p. 23.
6) Ibidem.
7) 1975, II, pp. 1418-20.
8) 1996, pp. 52-55.
9) Cfr 1981, pp. 79-88, 123-129.
10) Cfr Todorov 1991; Said 1999. 
11) 1961, p. 15.
12) "Eterologia" è un neologismo creato da Michail Bachtin per indicare il carattere pluridimensionale del linguaggio e della comunicazione intersoggettiva (Cfr Todorov 1990, pp. 80-84). 
13) Cit. in Todorov 1990, p.132. Il "principio dialogico", mutuato dalla filosofia di Martin Buber, riassume del resto la concezione di Bachtin, che così scrive in una pagina di appunti inediti: "La vita per sua natura è dialogica. Vivere significa partecipare a un dialogo: interrogare, ascoltare, rispondere, consentire, ecc." (Ibidem).
14) huang-zi, cap. II, pp. 22-24.
15) Gomora 1994, pp 29-35
16) Orazio, Epistula 2, 1, 156.
17) Cfr Hobsbawm 1999.
18) Cfr Momigliano 1933, pp. 477 sgg.; v. anche Curcio 1958, pp. 5-66, e Chabod 1961, pp. 21-23.
19) Sul dualismo Grecia-Persia, oltre l'opera storiografica di Tucidide, si v. I Persiani di Eschilo.
20) Traverso 2001, p. 12.
21) 1996, pp. 612-13.
22) Cfr Novalis 1982.
23) Cfr Guizot 1956.
24) Politica, I, 4-5.
25) Cfr la ricca, orripilante documentazione riportata da Todorov 1982, pp. 169-172.
26) 1981, pp. 312-13.
27) L'Italia e l'Oriente, 1937, in Gentile 1991, p. 44.
28) 1990, pp. 97-100.
29) Politica, III, 1285a. 
30) 1992, pp. 43-44.
31) Cfr Wittfogel 1968, I, pp. 22-24; II, pp.642-49 e passim. .
32) 1975, II, pp. 763-64, 810-11; III, p. 1576.
33) Marcuse 2001, pp. 22-23. 
34) Cfr Neumann 1999.
35) Cfr Lewis 2001, p.14-15.
36) 2001, pp. 4, 130.
37) 1998, I, libro I, cap. XXXI, "Dei cannibali", p. 272.
38) Ivi, p. 278. "Penso che ci sia più barbarie - specifica infatti nella stessa pagina - nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martìri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il preteso della pietà religiosa), che nell'arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto" (Ibidem). Rituale, quest'ultimo, dettato peraltro non da vendetta o ferocia scatenata, ma solo da ingenue credenze e concezioni magiche. 
39) 1996, p. 102.
40) È vero però che Voltaire, mostrando incoerenza su questo punto, nella tragedia Mahomet, ou le fanatisme, dipinge il profeta dell'Islamismo come un concentrato di ferocia, intolleranza e tirannia; in modo analogo, nell'Ésprit des lois Montesquieu contrappone il dispotismo asiatico e il fanatismo islamico allo "spirito di libertà" europea, di matrice cristiana (Cfr Cardini 2001, pp. 284, 287-88).
41) Cfr Cristin-Fontana 1997, pp. 43-58; Cardini 2001, pp. 283-84.
42) Cit. in Duroselle 1964, pp. 31-32 e passim.
43) 1964, p. 42.
44) La crisi dell'umanità europea e la filosofia, 1935, in Husserl 1965, pp. 328-360 
45) 1979, pp. 47-60.
46) 1992, p. 77.
47) Cfr Guénon 1982 e 1993. - Si v. in proposito Alexandrian1996, pp. 455-462.
48) 1990, p 10. 
49) Ivi, pp. 269-70.
50) 1965, p. 46. 
51) 1990, p. 270.
52) È questa la conclusione contraddittoriamente paventata dallo stesso Feyerabend. Posta la premessa scettico-empiristica che la "decisione" per i diversi sistemi di valori è dettata dalle "inclinazioni", diventa evidente che, "se inclinazione si contrappone a inclinazione, allora alla fine vince l'inclinazione più forte, il che oggi e in Occidente significa: le banche più grosse, i libri più spessi, gli educatori più determinati, i cannoni più grandi" (Ivi, p. 305).
53) Cfr Kant 1978, "Secondo articolo definitivo per la pace perpetua", pp. 297-301. 
54) Per queste e altre informazioni intorno ai vari aspetti e problematiche storiche e istituzionali dell'Unione Europea, cfr l'aureo libretto di Graglia 2000. 
55) 2001, p. 34.
56) Cfr Brecher-Costello 2001, pp. 168-70; Dahrendorf 2001, pp. 69-88.

L'idea di Europa
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