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Dinanzi a un tema così vasto e ambizioso quale quello
proposto dal Convegno di S. Sepolcro la cosa più saggia è forse partire
dal suo titolo – che mi sembra bellissimo. Giovani e adulti. Prove d’ascolto, dunque. Mi piace in particolare modo la seconda parte della formula. Quelle "prove" di un (possibile) "ascolto" esprimono anzitutto un atteggiamento di apertura e cautela. Si tratta, per prima cosa, di ascoltare. Non, dunque, di dire – o, peggio, di sentenziare –, come è hybris pressoché costante di una psico-pedagogia e di una cultura secolare. Ma, appunto, di ascoltare. È abbastanza chiaro che chi si dispone, anzi chi esorta, all’ascolto almeno una cosa pare ammettere preliminarmente: che vi sia qualcuno da ascoltare. Che chi parla – o chi, almeno, manda o potrebbe mandare un messaggio – abbia qualcosa da dire. Che questo ‘qualcosa’ non sia, per noi, manifestamente insensato, o irrilevante – e neppure da segnare arcignamente col lapis rosso e blu. Mi sembra la prova non solo di un’attenzione cognitiva (ascoltare per acquisire informazioni – magari, però, su chi è già stato pre-giudicato ‘il corrigendo’), ma anche di un’attenzione etica: l’eticità di chi, in ogni caso, avverte un’esigenza di appropriato "riconoscimento" (Hegel) o di "rispetto" (Levinas) dell’Altro. E poi, come si diceva: non ascolto ma prove di ascolto. Il "rispetto" sta aumentando – è grande. Impegnarsi in una prova, anzi in reiterate prove, di ascolto significa che l’Ascoltante ha rinunciato a un ben preciso primato: quello di chi era certo di possedere una Verità. Una verità considerata, di volta in volta, oggettiva, universale, meta-empirica, meta-temporale – ma, in ogni caso, au dessus de la mêlée. La Verità vera, insomma. La Verità che c’è – pur celata sotto le maschere dell’implicito, dell’indiretto, del non-dichiarato; o, se si vuole, sotto le seduzioni dell’apertura, del sorriso, della tolleranza. Le notavazioni di cui sopra hanno un’evidente connessione con la tematica che ci interessa. È come se la cultura socio-pedagogica odierna (e non solo essa) si dividesse in due grandi schieramenti. Da una parte v’è la cultura del ‘Chi-sa’, dall’altro, la cultura del ‘Chi-ascolta’ e del ‘Chi-cerca’ – o del ‘Chi-prova’ ("Prove d’ascolto"). La prima si fonda, con diversi gradi di assurance, sulla credenza or ora indicata nell’esistenza di un Vero – anzi del Vero – e del suo Interprete. La seconda non possiede tale fede, non vede intorno a sé sorgenti affidabili di verità certe. Preferisce, allora, rinunciare a forme di investitura e di incarichi ammaestrativi che pur le avrebbero conferito un evidente potere. Questa seconda cultura non parte dalla Verità ma dalla sua Crisi. Ancor prima: non parte dalle cognizioni e dai valori ma da un orizzonte più ampio, che sta in qualche modo oltre la dimensione concettuale – la dimensione, per intendersi, della paideia, delle idee chiare e distinte, della ragion pura. Sommamente oscuro, indistinto e impuro è, in effetti, il mondo al quale, secondo tale cultura, appare indispensabile riferirsi. Un mondo problematico, impegnativo – questo lo dicono tutti. Io invece vorrei dire un mondo che si è fatto sempre più enigmatico. Qual è la differenza? È che ogni problema ammette, almeno in linea di principio, una soluzione. Invece l’enigma non concede questa fiducia. Tende, piuttosto, a inquietare, a perturbare. Nel caso migliore, a stimolare le nostre risorse – aldilà di ogni metodo, di ogni apparato categoriale precostituito, di ogni metacriterio di chiarezza/distinzione. Ecco, allora, la sola premessa realistica da cui partire in ogni discorso su giovani e adulti viventi nel nostro presente. Abitiamo in una realtà sociale che non solo non ha risolto i grandi problemi della convivenza, ma li ha fatti ingigantire e complessificare – fino al punto che sono diventati, appunto, enigmi. Ci guardiamo intorno e vediamo generalmente volti stranieri. Penso, si badi, non tanto agli stranieri in senso proprio quanto a figure che dovrebbero esserci familiari ma non lo sono (quasi) più. Cerchiamo dizionari, prontuari, codici: quei testi che un tempo aiutavano la comunicazione tra diversi. Ma quei testi sono pressoché scomparsi. Se ci sono ancora, servono per un interscambio troppo povero e breve. Perché quei testi mancano? Non per carenze editoriali. Piuttosto perché, almeno in determinati rapporti, sono venute meno certe tradizionali precondizioni di rapporti. Non siamo più diversi: siamo sempre più, appunto, stranieri. Con l’ulteriore, paradossale circostanza che questa étrangeté sembra crescere, anche e soprattutto, tra consanguinei e tra membri dello stesso sistema socio-culturale. Genitori e figli: spesso due compartimenti stagni. Insegnanti e allievi: spesso una faticosa sopportazione reciproca. Lamentazioni e polemiche reciproche servono a poco. Più utile partire da un’analisi delle possibili ragioni di tale situazione. Necessario, anche, che ciascuna delle parti parli, per così dire, in prima persona, consapevole di rappresentare solo uno dei punti di vista sul tappeto. Che non pretenda, insomma, d’essere l’espressione né dell’Universale né del Vero – errore, riconosciamolo, frequente soprattutto nei cosiddetti adulti. Ma se quest’ultima istanza è giusta, ecco il significato forte delle mie considerazioni. Ciò che appare indispensabile è la rinuncia a quella che chiamerò la Mono-cultura della Verità e del Proferimento. In effetti, se le parole hanno un senso, nel nostro contesto crisi vuol dire – o implica – invecchiamento degli attuali principi etico-veritativi, necessità di una riflessione sui titoli di legittimità di tali principi, e soprattutto esame critico della funzione, o almeno dell’operato, di quanti si ritenevano detentori dei valori cognitivi, morali, comportamentali. Si tratta allora di passare dalla cultura di cui sopra a quella che chiamerò la cultura dell’Ascolto e della Ricerca. Chi sa di non sapere – o chi sente che il suo sapere risulta per troppi versi inadeguato – dovrebbe incominciare col mutare una certa sua dispositio mentale e un certo suo atteggiamento relazionale. Dalla certezza al dubbio. Dal (presunto) possesso alla (effettiva) indagine. Dall’‘esternazione’ – ciò che poc’anzi denominavo il Proferimento – a una nuova Apertura verso l’Altro – ossia verso gli altri e il mondo. È questa apertura che si può chiamare Ascolto. E poiché si deve trattare di un’apertura/ascolto finalizzata alla scoperta di nuove situazioni relazionali, l’ho chiamata anche Ricerca. Nel mio lessico tale termine/concetto include varie componenti: consapevolezza dell’insufficienza di quanto si ha (si vive) qui e ora, impegno anche pratico (fatica) nello spazio/tempo per cogliere quanto ci occorre, mobilitazione di forze e individui plurimi in tale impresa. Un punto, quest’ultimo, troppo spesso trascurato. In verità, come pensare che una ricerca coinvolgente esigenze e desideri di tanti, diversi soggetti possa essere gestita solo da alcuni di essi? Come si sarà ben compreso, lo scenario che ritengo ineludibile e, insieme, auspico è quello di una comunità nella quale i principi dell’Auctoritas, della Traditio, dell’assunto ‘Adulto è giusto’ siano molto pacatamente – ma altrettanto radicalmente – messi in discussione. Tale esigenza non è alimentata da un mero spirito "contestatore" – al quale sembra mancare (ma probabilmente anche ciò ha una sua causa) la capacità di progettare alternative convincenti. Muove, invece, da una severa diagnosi dell’esistente. Una determinata organizzazione socio-politica del mondo non ha funzionato (né quella di ‘destra’ né quella di ‘sinistra’, tanto per evitare equivoci). Quel ch’è peggio, il valore della Cultura – o la cultura come Valori – ha subìto un tracollo epocale. Non si obietti che si tratta solo di un processo di trasformazione di certi contesti assiologico-culturali; e che ‘cultura’ esprime, in sede scientifica, solo un certo sistema comportamentale. No. O almeno, non è questo il momento di introdurre un asettico regard antropologico sulla cultura come reperto da laboratorio nel così sofferente ambito della cultura come vita vissuta. La verità è che questa cultura è malata. E, come si dice che accada ad alcuni animali prossimi alla morte, essa tende ad allontanarsi da noi. Saluta e se ne va. Sa di essere stata, a lungo, un assai vitale incomodo: il dèmone che tiene desti, che alimenta stimoli, domande, sogni (im-)possibili. Ora s’inchina e toglie il disturbo. Le librerie sono in affanno. I palchi dei teatri vengono spesso riempiti coll’escamotage dei biglietti-omaggio. In televisione, le trasmissioni che non proiettano film (o risse pseudo-politiche) si chiamano "spettacoli" – e con questo è detto quasi tutto. Specie se si aggiunge che le pellicole di qualità compaiono solo a notte fonda, che le recensioni alle novità editorial-cinematografiche o non ci sono o sono ridotte a spot pubblicitari, e che incontri con autori e artisti vengono periferizzati a "mezzanotte e dintorni". Il metacriterio valutativo che, novello Minosse dantesco, giudica e manda (in onda o a casa) si chiama, com’è noto, Audience. Mi è sempre parso un temine estremamente significativo. Si tratta – sappiamo anche questo – di un indice puramente statistico, che esprime il quantum di persone aduse a seguire un determinato programma. Dunque un indice che riduce la qualità delle trasmissioni alla quantità dei suoi spettatori, i significati culturali a eventi misurabili – o, in altre parole, il bello, il vero, l’interessante a un numero. In molti ambiti – inutile nasconderselo – la nozione di numero è parente stretta della nozione di prezzo. E, in effetti, nel nostro mondo il numero e il prezzo regnano sovrani. Nel nostro mondo – non è una metafora – "tutto ha un prezzo". Tutto: anche ciò che non ambisce averlo. Oggetti "senza valore": la cultura è uno di questi. Se non può neppure "essere messa a prezzo" – per impiegare un’eloquente espressione usata a Prato –, è semplicemente perché ha pochi acquirenti. Se indubbiamente non ne ha mai avuti molti, ora non ne ha quasi più. Ciò ch’è più grave è che sembra tramontato il problema stesso: il problema di quella realtà – indubbiamente sui generis – che è, appunto, la cultura. E con essa il patrimonio dei valori che la cultura medesima tendeva a generare e ad alimentare – o magari a criticare e modificare. Se le cose stanno così, è comprensibile che in un Convegno come il nostro si ripensi alla situazione delle prime sorgenti, per i giovani, di cultura e di valori – a cominciare, magari, dalla famiglia. Anche per vedere perché pure in essa l’ascolto soffre, e per esprimere qualche pensiero su come cercare di sanarlo (almeno in sede psicologica generale). Della famiglia le più diverse ricerche psico-sociali dicono che è un’istituzione in crisi. Il nucleo familiare soprattutto urbano si è, in molti sensi, depauperato: i nonni (e le tate) non ci sono quasi più; le mamme non sono più delle "casalinghe". Il "focolare domestico" di jadis ha perso consistenza e significato: non è quasi più il fondamento, o un forte rigeneratore, di valori condivisi. A casa si transita solo per mangiare e dormire. Ma, a ben guardare, anche i pasti si sono depauperati. Le prime due colazioni si consumano nel segno della fretta e della precarietà (‘ti ho lasciato qualcosa in frigorifero’). Resta la cena – unico momento espressivo di possibili affetti familiari. Senonché a cena vi sono due ospiti fisse che compromettono tante chances importanti. Si chiamano Signora Stanchezza e Signora Televisione. Probabilmente sono legate tra loro da una perversa complicità. Certo, l’una inibisce e l’altra (inter-)rompe. Sotto un determinato profilo rappresentano l’intrusione del Sociale nel Privato. Anzi, il primo tende a ridurre/cancellare il secondo. Come, d’altronde, sorprendersene? Il mondo è così pieno di problemi che logorano e di eventi che vanno seguiti. E allora, si subisce sempre più il Sociale – specialmente attraverso il suo medium informazionale più eloquente. Zitti tutti, parla la TV. L’Ascolto – l’ascolto caro al nostro Convegno – è rivolto interamente alla Signora Televisione. Assai spesso, diciamocelo, si tratta non tanto di un vero ascolto quanto di una mera audizione – un po’ meccanica, passiva, distratta. Forse è il modo d’essere di chi, in realtà, vuole essenzialmente non-pensare. Solo per abbastanza comprensibili motivi, è ovvio. Del resto in discussione, qui, sono non delle colpe ma delle cause e delle conseguenze. Le cause: una vita troppo faticosa in una dimensione troppo popolata di fatti (o di fattacci, o di fatterelli). Le conseguenze: un genitore che si siede a tavola con la testa troppo piena – o troppo vuota – per sintonizzarsi non con la TV ma coll’Altro. Certo, questo Altro è suo figlio. Il genitore lo guarda un attimo. Strano, anche lui lo stava guardando. Voleva dire qualcosa? Capita così di rado. Ha sempre un’aria così assente. La scuola: come andrà a scuola? Forse guardare solo la pagella non basta. Amici ne ha? Probabilmente sì: è sempre fuori. Però anche in questo caso sarebbe bene saperne di più. Se ne sentono tante... Ma gli sguardi sono restati sguardi. Il silenzio è rimasto sovrano. Anche dopocena – "esci? Esco". Anche sabato e domenica – "esci? Esco". L’Assenza. Il Fuori. L’Uscire. Il Silenzio. Questo è l’Esistente sofferente di molti giovani (non di tutti, com’è ovvio). Una sofferenza legata a una mancanza. Si tace, si va altrove (o, peggio, ci si è già) perché nella realtà genitoriale-familiare non c’è qualcosa. A ciò che manca ho alluso, naturalmente solo in parte, nelle righe precedenti. Indagini recenti tendono a enfatizzare altri aspetti (altre genealogie) del problema in questione. Lo sviluppo psicologico degli adolescenti si è fortemente accelerato. L’orizzonte dei bisogni e delle attese si è dilatato. La società dei consumi ha introiettato un sistema di desideri e di valutazioni troppo diverso da quello di un ancor recente passato. Il progresso tecnologico non solo ha amplificato tale gap, ma ha prodotto veicoli e linguaggi inediti. Chi era avvezzo ai modi e ai tempi delle comunicazioni d’antan rischia di non capire i messaggi comunicativi d’oggi. Ma non è solo questione di pure tecniche, quantità e velocità: è questione delle implicazioni che questi new media hanno in sede esistenziale. Quando tante cose sono tecnicamente fattibili, altrettante sembrano possibili – e ciò non è sempre vero. Mentre è verissimo che se adotti un determinato insieme di cause/effetto, o di stimoli/risposte, o di regole/codici comportamentali, necessariamente non curi – o trasgredisci, o offendi – molti altri insiemi. Sono convinto che queste ragioni siano essenziali: le prime da menzionare. Ma sono altrettanto convinto che le difficili comunicazioni tra genitori e figli hanno anche importanti matrici psicologiche. E forse, è soprattutto in relazione ad esse che dovrebbero partire le prime strategie di un loro possibile miglioramento. In tale ottica, il riferimento all’Ascolto mi pare estremamente valido e promettente. Esso ha il merito di obbligarci a riflettere (quasi per contrappasso) sulla condizione di silenzio ‘in-comprensivo’ che segna le comunicazioni di cui sopra. Una condizione che genera, a ben guardare, non una ma due solitudini: quella di chi vorrebbe sentire e quella di chi vorrebbe parlare – due soggetti i quali, nella reciproca incapacità relazionale, si vivono, appunto, soli. Non mi si chieda chi è il primo ‘chi’, e chi è il secondo: sarebbe una domanda fuorviante. In effetti, sia il genitore che il figlio vorrebbero – più o meno consciamente – sia sentire sia parlare. Anche in sede teorica la comunicazione umana è non già la trasmissione di un emittente a un ricevente e la sua ricezione, bensì una sorta di intreccio in cui i due poli assumono, talvolta perfino in contemporanea, entrambe le funzioni. Nel caso, poi, della relazione genitore-figlio l’intreccio risulta particolarmente denso. Nell’‘in-comprensione’ che si vorrebbe superare v’è infatti il surplus di un bisogno e di una speranza. V’è, cioè, un investimento affettivo. I due soggetti partono da una condizione di crisi di rapporti che chiede d’essere sanata nel suo luogo più proprio: affettivo, appunto, prima ancora che intellettivo. Per questo le ‘cose’ da dire/ascoltare contano meno del gesto che potrebbe riaprire il dialogo interrotto – o, forse, mai nato. Per questo, ancor più radicalmente, la volontà di riparlarsi/riascoltarsi è forse l’evento decisivo: la precondizione che, se esiste, ci fa compiere di per sé sola un importante tratto di cammino – di avvicinamento. Occorre, naturalmente, che si tratti di una volontà non astratta (di testa più che di cuore). Deve essere, invece, una volontà molto sostanziale e concreta: radicata nell’humus, or ora indicato, di bisogni e speranze fortemente sentite. Il sentire appare, nell’avventura dell’ascolto e del progetto in cui s’inserisce, una componente assolutamente centrale. Alludo, naturalmente, a un sentire non meramente sensoriale ma psicologico – esistenziale – che appartiene all’intero homo persona (Ludwig Binswanger).. Bisogna, se del caso, sentire l’Altro come assenza, non più sopportabile, di una Presenza che si desidera. Solo tale sentire genera quell’energia emotiva che – secondo una ben nota teoria freudiana – è forse l’unica a potersi cimentare con l’opposta energia della resistenza, della chiusura, del negativo – e vincere il cimento. Poi, insieme al sentire, occorrerà quella che si potrebbe chiamare la scoperta dell’alterità. Nulla di banale o di scontato in tale formula. In effetti, la componente ‘senziente’ cui si è appena alluso rischia di restare l’espressione di una pura egoità. Sia magari, questa egoità, un soggetto animato dai migliori good feelings. Resterà pur sempre, appunto, un’egoità: un ego che dice ‘io’, un ego che ascolta principalmente le sue proprie istanze. Istanze, concediamolo subito, degnissime. Ma saranno pur sempre le istanze di A (ad esempio del papà A) – e quell’ascolto potrebbe non oltrepassare un ambito essenzialmente autoreferenziale. Orbene la ‘scoperta dell’alterità’ implica precisamente una certa presa di coscienza di questo tendenziale egotismo – spesso camuffato, nel caso delle figure genitoriali, da illusioni/moralismi secolari (‘lo dico per il tuo bene’); altrettanto spesso alimentato, nel caso dei figli, dalle pulsioni narcisistiche peculiari dell’adolescenza. In seguito si tratterà, è chiaro, di dischiudersi un po’ verso l’altro. Di accorgersi di lui. Di riconoscerne gradualmente la fisionomia e l’esistenza. Di farsi catturare da una curiosità e un interesse destinati, in votis, a svilupparsi in rispetto e coinvolgimento. Rispetto e coinvolgimento: due approdi diversi ma ugualmente importanti. Il rispetto si correla a un’adeguata scoperta dell’altro in quanto tale e a determinate sue implicazioni. Io scopro, prendo seriamente atto che tu ci sei. Che ci sei come soggetto – indipendentemente dalle tue caratteristiche anche più singolari e, in ipotesi, meno gradevoli. Che vai accettato responsabilmente per il tuo darti come persona – e tanto peggio (o tanto meglio) se come persona altra da me. Che i tuoi modi d’essere, le tue azioni, i tuoi problemi esigono un’attenzione attraverso la quale li si sappia guardare juxta ‘sua’ principia – e non attraverso i ‘nostri’ criteri. Il coinvolgimento è una modalità di rapporto in più sensi ulteriore. Presuppone il rispetto quale lo si è definito sopra, ma appartiene anche a una relazione differente. Definiamola, con qualche approssimazione, una relazione più accentuatamente affettivo-emotiva. Essa si dà quando, riprendendo alcuni termini evocati sopra, la ‘seria’ presa d’atto dell’altro si trasforma in empatia, l’accettazione responsabile in intima comprensione, l’attenzione in condivisione di questioni dolenti o di speranze aperte. L’ascolto parte-da, e insieme sviluppa, una o molte di queste varie relazioni dell’io col tu. Implica, anzitutto, che si acquisisca in modo adeguato il darsi dell’altro, e che si voglia approfondirne la conoscenza. Questa conoscenza, si badi, non ha un carattere solo intellettuale: spesso è anzi più di natura esperienziale ed esistenziale. Ciò che appare indispensabile è cogliere i generali modi d’essere e di sentire, di pensare e di giudicare, di agire e di reagire del tu. È chiaro infatti, che la loro percezione empatico-cognitiva contribuisce a far capire (almeno in prima approssimazione) le singole manifestazioni della soggettività ‘altra’. In ogni caso la condizione essenziale è, ripetiamolo, di porsi in ascolto. L’ascolto è, prima di tutto, un’apertura e una (graduale, non rettilinea) entrata in sintonia. Tutte le nostre antenne sono mobilitate per la ricezione dei più vari messaggi inviati dall’altro. L’apertura dev’essere il più possibile larga e disponibile. Nell’ascolto ci si deve attendere, letteralmente, di tutto – anche i silenzi, anche le indicazioni in apparenza più ambigue e oscure. Non a caso, un’arte strettamente intrecciata a quella dell’ascolto è l’interpretazione. Occorre, inoltre, avere molta pazienza: un termine-concetto da assumere anche nella valenza temporale che contiene. L’ascolto successful può richiedere infatti tempi relativamente lunghi, riempiti da molte prove (le ‘prove d’ascolto’). Ancora un’osservazione a questo proposito. Le prove di cui sopra non devono muoversi necessariamente entro il solo ambito linguistico. Il traguardo del nostro impegno di comprensione non è costituito principalmente dalle parole ma dagli esseri umani. E tali esseri ‘si dicono’ – o si fanno, appunto, comprendere – attraverso le più diverse e imprevedibili espressioni di sé. È anche per ciò che l’ascolto si deve realizzare in forme e maniere plurime. Anche gesti, mimiche, imbarazzi, trasalimenti possono dire molto, moltissimo, all’ascoltatore partecipe. Non si usa, d’altronde, parlare di ‘silenzi eloquenti’? Tutto ciò è tanto più vero in quanto lo stato o l’evento che sotterraneamente conta sopra ogni altra cosa è – come si è già accennato sopra – la ripresa, o l’instaurazione, di una comunicazione interrotta, o mai nata. Questo è ciò che desidera primariamente sia chi si dispone all’ascolto sia chi ha accettato (almeno in qualche misura) di aprire parti del suo mondo all’ascoltante. Il loro rapportarsi reciproco è, insomma, un rapportarsi anzitutto interpersonale. Al suo interno le parole contano, eccome: ma insieme ad altro – un altro di cui l’ascolto deve tener conto. Se ho indugiato su questi aspetti psico-esistenziali dell’Ascolto, non è solo perché era uno dei temi assegnatimi. È anche perché sono convinto che attraverso tale riflessione si accostano due componenti davvero centrali del tema che ci occupa: da un lato alcune condizioni generali dell’ascolto in quanto tale, dall’altro certe caratteristiche di base dei concreti atti dell’ascoltare. Naturalmente, le "prove d’ascolto" cui il Convegno è dedicato si riferiscono poi a contenuti di portata più sostanziale. Dobbiamo individuare quali sono i nodi sui quali più frequentemente si addensano le difficoltà e i conflitti comunicazionali tra giovani e adulti. Analizzare le cause e le manifestazioni più significative di tali difficoltà e conflitti. Approfondire, soprattutto, la problematica educativa, la problematica dell’universo-scuola. In effetti essa si connette a uno dei momenti, o dei luoghi, nei quali maggiormente emerge la non-sintonia tra le due fasce di interlocutori che ci interessano. Con l’aggravante che anche secondo molti genitori, docenti, uomini di cultura è vero che la Scuola è in crisi. È vero che risponde male all’essere e alle domande degli adolescenti d’oggi. È vero che i suoi programmi andrebbero meglio correlati con le esigenze intellettuali e umane dei suoi giovani utenti – per tanti aspetti così diversi da quelli del secolo scorso. Qui, più che in molti altri casi, appropriate "prove d’ascolto" dovrebbero favorire il disvelamento delle istanze e delle attese delle nuove generazioni. Non basta. Credo che, sempre restando in ambito lato sensu educativo, a noi adulti spetti un compito ancora più delicato e impegnativo. I nostri stimoli e messaggi inviati a loro devono far scoprire che la cultura della Scuola, e dell’educazione in genere, non è inevitabilmente un mondo chiuso, rattrappito intorno a un patrimonio non più attuale. Proprio in quanto cultura essa possiede, e deve mostrarlo, una gamma vastissima di potenzialità: valori ‘classici’ ma non per questo da condannare a priori a un affrettato oblio; volontà di confrontarsi col mondo (e sia pure, come detto sopra, un mondo poco sensibile alla dimensione culturale); curiosità e interrogativi ancora capaci di proporre nuovi punti di vista – o magari, come diceva Eraclito, di "risvegliare i dormienti". Certo, bisogna che il risveglio riporti alla vita anzitutto questa cultura e i suoi luoghi deputati – a cominciare, appunto, dalla Scuola. Che riguardi, insomma, gli adulti prima ancora dei giovani. Altrimenti l’Ascolto – che deve essere, ricordiamocelo sempre, reciproco – non produrrà gli effetti cui tutti aspiriamo. Ma proprio il nostro Convegno – nelle persone che lo hanno organizzato e in quelle che vi partecipano – costituisce, mi pare, una risposta positiva e convincente a questa inderogabile esigenza. |
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