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Premessa
Interpretare significa attribuire un significato, sia a scopo conoscitivo, sia a scopo operativo. L'interpretazione è quindi un fenomeno complesso che trova motivo in un fatto, in un problema, che è necessario conoscere in modo da poter poi operare.
Sostanzialmente, almeno nella mia focalizzazione del problema, il tema è il disagio dei giovani, è un tema di cui si parla da sempre e paradassolmente troppo, perché forse se ne parla male, tanto che il termine stesso è divenuto ambiguo, tende a comprendere sia la sofferenza legata ai bisogni insoddisfatti ed ai maltrattamenti, sia l'insoddisfazione che accompagna l'esistenza anche nel "benessere". 
Sta, di fatto, però che aumentano sia la sofferenza sia l'insoddisfazione, ed i limiti tra le due cose sembrano sciogliersi e scomparire, ma questa è un'osservazione che vale per il primo mondo a cui apparteniamo, perché per il resto del mondo (sembra non esistere più un secondo mondo) che e uso chiamare il terzo, la distinzione tra sofferenza ed insoddisfazione esistenziale è risolta col prevalere assoluto della sofferenza.
Fatta questa osservazione è necessario, però, tornare a noi ed esaminare quello che sembra accadere.
Nell'ambito dell'età evolutiva oggi si assiste ormai da qualche tempo ad un allargamento del periodo dell'adolescenza, che non solo si allunga ma inizia anche più precocemente, a volte anche prima della trasformazione puberale. È questo un fenomeno che ha origine in precise caratteristiche della condotta degli adulti e che sottopone il soggetto in età evolutiva ad una serie di stimoli che possono essere anche origine di rischio e di disagio. 
Se da una parte questo fenomeno porta al permanere del giovane in una zona di parcheggio prolungato prima di diventare adulto, da un'altra parte si accompagna ad un altro fenomeno che è basilare: se l'adolescenza si allunga ed inizia prima, l'infanzia si accorcia sempre di più, quasi fino a perdersi. L'infanzia perduta dipende dall'infanzia negata e si esprime con l'infanzia nascosta, e l'infanzia nascosta è un'infanzia muta perché non ascoltata.
S'innesta così un processo perverso che inizia a negare l'infanzia, bloccare l'adolescenza e quindi perdere anche la possibilità d'essere adulti.
Non intende essere questa una constatazione disperante o pessimistico, ma solo un cercare di cogliere la possibilità di rendersi conto, con onestà intellettuale, di cosa sta accadendo, non solo per capire meglio il "disagio" minorile, ma anche cercare di capire cosa sia possibile fare proprio per costruire un dialogo consapevole tra giovani ed adulti, attivare un campo relazionale in cui l'ascolto sia possibile e costruttivo.

1 Prove di ascolto
Già nel tema si enuncia un problema, centrale, forse, nella complessità della relazione tra giovani ed adulti e che oggi sembra assumere significati ed aspetti particolari.
Le parole definiscono, limitano e connotano l'argomento, il senso del discorso e delle riflessioni.
A questo riguardo mi interessa riflettere sul significato di due espressioni in particolare, sui concetti espressi dai vocaboli: " ascolto" e "prove".
In ogni relazione l'ascolto realizza un momento specifico, centrale e delicato, ambiguamente interpretabile ed interpretato. L'ascolto sta all'inizio della relazione e l'accompagna per tutta la sua durata, è essenziale nell'osservare e nell'accogliere, nel preparare e nel creare lo spazio comunicativo e solo apparentemente è un fatto passivo e ricettivo, la reciprocità dell'ascolto da senso al rapporto, ne determina i contenuti.
L'ascolto, poi, più dell'azione è legato al pensiero, se non altro in un modo più intimo, non sembri questa una finezza psicologica, perché il pensare l'altro è un elemento della relazione non sempre sufficientemente valutato.
Se consideriamo, e non solo per esempio, la relazione primaria, tra madre e figlio, tra genitori e bambini come base della relazione tra giovani ed adulti, che evolve poi nelle caratteristiche generali delle relazioni tra le persone, è ormai acquisita l'importanza fondamentale del pensare l'altro e del pensarsi nel rapporto.
La madre ed i genitori pensano il figlio, anche prima che questo nasca ed a volte prima del concepimento.
Questo pensiero, ovviamente, non mai "innocente", nella sua assoluta soggettività si colora di emotività e di pregiudizi e si esprime con i desideri, tanto che ogni adulto ha un'immagine dei propri figli, un'immagine dei bambini, dei ragazzi e dei giovani, che é esclusivamente sua, forse condivisa, ma sempre nella soggettività più stretta e che si avvicina all'oggettività dell'esistenza reale solo nell'incontro e nel dialogo che è fatto, o dovrebbe essere fatto, prevalentemente di ascolto.
D'altra parte in tutte le relazioni questa immagine-pensiero non è mai innocente nella sua inevitabilità e necessità, perché è sempre fondato sulla personale visione del mondo che è preconcetto e pregiudizio.
Aiutandosi con una metafora per spiegare quanto detto, il pensiero dei genitori costruisce una sorta di culla psicologica nella quale il bambino è accolto, si sente contenuto e capito ed ha l'opportunità di confrontarsi con l'immagine che i genitori ne hanno e costruire così la sua identità personale. Nell'adolescenza poi questo contenitore di pensiero si apre e da culla si trasforma in rifugio, base sicura dalla quale esplorare il mondo e che poi sarà abbandonata, e collocata nel ricordo farà parte della storia personale.
Questi meccanismi di pensiero caratterizzano ad ogni livello la relazione tra giovani ed adulti, come poi caratterizzano i rapporti tra le "persone".
Con questo ultimo vocabolo è stato introdotto un altro concetto: quello di "persona".
Non è questa la sede per definire cosa sia la personalità e cosa si intenda per persona, ci è però sufficiente assimilare questo concetto a quello di "individualità", all'originalità personale come differenza, espressione dell'individualità, dell'"io" e del "tu" nella relazione.
Anche questo concetto però è fondamentale e fondante nella relazione tra giovani ed adulti, perché è sempre molto difficile che un adulto riesca spontaneamente a considerare un figlio o un giovane "persona", cioè individuo compiuto e diverso dall'immagine che ne ha. Quando ciò avviene si realizza sempre nell'ambito del conosciuto, del previsto, del prevedibile e dello sperabile. 
Appare chiaro che questa difficoltà ha un senso, che fisiologicamente nasce da una delle caratteristiche universali del rapporto tra genitori e figli, in altre parole dalla asimmetria di potere e di possibilità. Questa è una caratteristica che fonda tutta la relazione pedagogica, di crescita e di sviluppo, ogni bambino è "persona" in senso concreto e non astratto, anche se non nella sua compiutezza evolutiva, ma nel complesso delle sue competenze e delle sue opportunità di sviluppo. 
Tutto ciò porta poi a considerare come l'ascolto sia problematico e difficile, perché sempre fatto attraverso filtri interpretativi che non possono essere eliminati perché necessari. Ma è essenziale però che tali filtri siano consapevoli, funzionali all'unico scopo fisiologicamente legittimo che è quello di fare crescere i giovani nella realizzazione di tutte le loro "possibilità personali".
I rischi fondamentali nei quali possiamo incappare sono costituiti dal fatto che questi filtri possono essere troppo rigidi e pregiudiziali, ma anche essere resi formali fino a scomparire nella loro essenza, ed è questa l'evenienza più frequente oggi, che si sviluppa nella ricerca di una delega educativa dei genitori tra loro, tra famiglia e scuola, tra questi e la collettività rappresentata o dallo stato o dal gruppo. Delega questa che, proprio perché distribuita e diluita, nessuno raccoglie compiutamente per portarla a sintesi operativa. 
Questo processo realizza, nell'inconscio di personalità giovanili che evolvono dalla dipendenza all'autonomia, un senso di abbandono inapparente che è vissuto o come solitudine a cui reagire paranoicamente o con un'organizzazione autonoma delle strutture caratteriali e relazionali che prima di essere alternativa è disperatamente ed insufficientemente oppositiva.
Se è vero che ogni giovane per crescere ha sempre necessità di paragonarsi e di contrapporsi, per conoscere e conoscersi, perché ciò avvenga nel modo più produttivo possibile necessita di interlocutori sufficientemente definiti, non sfuggenti e non ambigui.
Questo forse è l'orizzonte culturale nel quale l'ascolto è divenuto un problema.
Queste riflessioni danno ragione del secondo vocabolo su cui riflettere: "prove"
Provare significa qui tentare, sperimentare, cercare di risolvere in un approccio insicuro un problema. Provare definisce un processo, un cammino che prevede e necessita di una consapevolezza, prima di tutto del problema vero che stiamo affrontando e poi del progetto che necessariamente stiamo costruendo.
Credo di poter affermare, o proporre come una mia opinione, che nel nostro attuale contesto culturale, in questo settore specifico sono caduti di tono sia la consapevolezza sia la progettualità, e questo è un fenomeno che coinvolge sia le famiglie sia le istituzioni. A ciò si accompagna un inevitabile scollamento tra problemi proposti dai giovani e la nostra capacità di adulti di comprendere in modo sufficiente, concreto e realistico, perché come è palese manca il dialogo. Quest'ultima affermazione però, perché non sia riassorbita nella banalità, è da sottoporre a critica, se non altro riguardo al senso che intendiamo dare al dialogo. Se inseriamo la relazione in un contesto culturale nel quale ci si confronta prevalentemente attraverso immagini, speso costruite attraverso modelli riduttivamente collettivi il dialogo esiste, ma non riguarda le persone, che rimangono nascoste con le loro nevrosi dietro le immagini attraverso le quali relazionano, si misurano e si confrontano.
Il progetto di cui parliamo e che vede come necessario l'ascolto reciproco è quindi solo in parte quello della relazione tra giovani ed adulti, perché si identifica in un progetto per gestire i rapporto nel complesso e nella complessità del nostro contesto sociale.
Nello specifico però, l'ascolto dei giovani realizza una risorsa ed un'opportunità di grande utilità ed interesse, perché per loro natura, attraverso i loro comportamenti, regolari o meno regolari, con i loro innumerevoli disagi spesso da loro non rilevati come tali ma vissuti attraverso le reazioni.
Se saremo capaci di "ascoltare" potremo avere sostanziali suggerimenti per affrontare i loro ed i nostri problemi e che la nostra onnipotenza residua non ci fa accogliere.
Per fare tutto ciò è necessario però approfittare presto di questa possibilità di dialogo fecondo, prima che i giovani insieme con noi non siano omologati in schemi di pensiero collettivi, che si fanno sempre più semplici, riduttivi e regressivi.



2 La diversità, una scomoda risorsa, una difficile opportunità:

I processi psicologici in età evolutiva sono normalmente caratterizzati dal fatto principale che in essi si sviluppano le differenze individuali. Il meccanismo principale è quello che va sotto il nome di "separazione individuazione", perché la separazione non è solo allontanamento e perdita, ma è principalmente differenziazione ed individuazione.
Questa caratteristica, che appartiene all'uomo in quanto specie, è in rapporto stretto con l'elaborazione culturale della società alla quale i singoli individui appartengono.
Questo fatto ha una limitata consistenza di differenziazione nei gruppi sociali più semplici e più vicini all'organizzazione naturale, più articolata poi, nelle società più complesse ed organizzate.
Va chiarito subito, che la semplicità e la complessità di un gruppo sociale sono più in rapporto all'evoluzione culturale che allo sviluppo socio-economico. Si può dire anzi che può esistere più complessità in un'organizzazione tribale che in un aggregato urbano postindustriale. 
La semplicità, poi, può essere l'espressione di un mancato sviluppo o di un processo regressivo. Ad esempio l'organizzazione "macista" delle baraccopoli dell'america latina è frutto di una regressione spinta al punto da seguire schemi antropologici estremamente arcaici e scarsamente differenziati.
Questa semplificazione nasce come meccanismo di difesa nell'affrontare le difficoltà del rapporto tra differenze che si giocano nella complementarietà delle caratteristiche individuali, ma anche ed in modo pesante, dai condizionamenti culturali e dalla pressione adattiva ad un ambiente aggressivo od omologante.
Schematizzando, le spinte fondamentali che sono in gioco nella crescita psicologica, sono, da una parte, la tendenza all'imitazione, all'omologazione, all'identificazione, e dall'altra la spinta opposta verso la differenziazione e l'individuazione. Questo processo caratterizza da sempre i giovani, ma lo ritroviamo anche in un contesto sociale che cresce ed evolve.
Sul piano individuale il complesso di separazione-individuazione caratterizza tutte le fasi dello sviluppo in età evolutiva che ha, o dovrebbe avere, come scopo il realizzarsi di una personalità individuale, originale ed autonoma, capace di stabilire poi un contratto sociale basato sulla complessità e la complementarietà delle differenze.
Nella società lo stesso processo ha due livelli di realizzazione: uno interno ed uno esterno. Quello interno si sviluppa nel rapporto interpersonale attraverso il rapporto tra le differenze individuali che realizzano una complementarietà creativa e progressiva e lo stesso accade nella differenza tra generazioni. Il livello esterno si sviluppa nel rapporto che le persone, e la società nel suo complesso, stabiliscono con la diversità culturale che viene, sempre più facilmente, attraverso gli scambi di persone, di merci, di usi e costumi, di notizie e di saperi. Ma quello che a noi più interessa è quello che si sviluppa nel rapporto tra giovani e adulti.
Ogni gruppo sociale tende, di per sé, al massimo di omogeneità possibile in quanto fonte di stabilità, di sicurezza sociale, di coesione e di riconoscimento reciproco. Allo stesso tempo, però ogni gruppo sociale evolve e si sviluppa sfruttando la "creatività" di individui che si sono differenziati dal contesto pur rimanendovi inseriti.
Da tutto ciò si può trarre la conclusione che la vitalità di un contesto sociale è in diretto rapporto all'equilibrio dialogico tra le due opposte tendenze. La tendenza alla stabilità ed alla conservazione da una parte, e la tendenza ai cambiamenti ed alla novità dall'altra, e tutto ciò si realizza e si incarna nel rapporto tra giovani e adulti che sono naturalmente portatori di queste opposte tendenze.
La dinamica di rapporto con la diversità si articola nella relazione tra Io e Tu, secondo gli schemi della filosofia e della psicologia dialogica, che rappresenta l'elemento costruttivo e progressivo che corregge la naturale tendenza alle rigide definizioni conflittuali. 
Ciò significa che l'incontro tra diversità pone le premesse per un possibile conflitto che può arrivare ad una sintesi, ma che più spesso può perpetuarsi sotto la spinta di meccanismi di difesa che tendono alla sicurezza ed all'omogeneità.
Ogni sistema, e quindi ogni società ed ogni uomo, in quanto sistemi, tendono, se non sollecitati, a rimanere in una situazione omeostatica, resistendo alle spinte adattive date dall'incontro con la diversità. 
Il rapporto con la differenza, con la diversità, ha origine nelle relazioni familiari di base. L'accettazione, l'integrazione e l'utilizzo della diversità è essenziale per un corretto rapporto tra genitori e figli e per un efficace processo educativo, che si completa poi, con gli stessi modi e processi, nel mondo.
Come sottofondo e motivo a tutto questo discorso sta la convinzione, credibile e verosimile che il rapporto con la diversità rappresenti un'occasione, un'opportunità di arricchimento che è opportuno riconoscere ed utilizzare.
La dinamica col diverso è l'essenza della dinamica tra io e tu.
La dialettica tra le opposte tendenze assicura la trasformazione ed il cambiamento, il movimento progressivo, ogni movimento ogni cambiamento hanno sempre in se dei rischi che si sintetizzano o nell'arresto dello sviluppo o nell'esasperazione ed identificazione in una sola delle due tendenze opposte.
Da quest'osservazione si può evincere che il segreto di ogni azione educativa sta tutto nel mantenere l'equilibrio dialettico e complementare tra la stabilità e la trasformazione, tra dare certezze ed alimentare la critica, tra gratificazione e frustrazione, in un processo che l'epistemologia complessa definirebbe autopoietico. In altre parole tutto ciò significa che educare significa innescare un processo, che una volta attivato tende a produrre un cambiamento che necessita poi di essere nuovamente rinforzato.
Il motore sta nel vivere la diversità come reciproco arricchimento in un campo relazionale costruito dalla consapevolezza di se ed il rispetto dell'altro.
Il rapporto con la diversità è quindi e comunque un'opportunità, anche se di difficile gestione, le diversità reciproche possono dialogare od entrare in conflitto, sta a tutti noi scegliere e l'esito dello sviluppo sta in questa scelta.
La scuola è il luogo idoneo per l'integrazione culturale, perché i soggetti che vi passano sono tutti soggetti in età evolutiva e quindi per natura persone per le quali l'integrazione, la trasformazione e l'accettazione delle novità è nella norma, anche se sotto la spinta di un'ambivalenza tra novità e conservazione, tra apertura e chiusura.
Sta alla scuola favorire l'integrazione delle diversità e ciò può avvenire solo col riconoscimento di tutte le caratteristiche positive e costruttive, anche se differenti tra loro, nel riconoscimento e nel rispetto del rispettivo patrimonio culturale.
Credo che sia opportuno domandarsi quanto questo complesso processo sia attivo e come sia rappresentato. È opportuno domandarsi se il rapporto tra giovani e adulti sia oggi mantenuto in questa necessaria complessità, oppure come appare, sia invece regolato da schemi mentali più semplici e più omologanti, all'interno dei quali la dialettica dell'ascolto reciproco diviene quasi superflua, nascosta dall'illusione della prevedibilità degli eventi in modo certo e definitivo.
Un modo per riattivare questo processo, per fare delle "prove di ascolto" efficace, può essere quello di "raccontarsi".


3 Raccontarsi come "prova di ascolto" reciproco.

Raccontarsi significa evidentemente parlare di se, fare una narrazione su come siamo, su come pensiamo di essere, su come desideriamo di essere, su come cerchiamo di apparire. Ciò richiede di entrare in una relazione che prevede un rapporto in cui ciò sia possibile, ma significa anche entrare in un processo che è insieme di introspezione e di verifica relazionale, di ascolto, di domande e di risposte. 
Il raccontarsi ha dunque due dimensioni, una a valenza prevalentemente comunicativa, mentre la seconda ha un significato riflessivo, di verifica e conferma della propria identità. 
Di solito ci si racconta o per "essere" o per "apparire", nelle relazioni che ci interessano il raccontarsi dovrebbe essere per "essere", anche se qualche volta è necessario "apparire". Sarebbe opportuno però che l'atteggiamento prevalente fosse finalizzato all'essere e che l'apparire fosse almeno consapevole e finalizzato ad uno scopo "psicologicamente onesto".
Abbiamo già affermato che "Il raccontarsi" rappresenta una "narrazione" di sé, la psicologia ha scoperto che la "narrazione" costituisce un modo essenziale di costruzione della personalità individuale, che si sviluppa appunto in un narrarsi reciproco, nel gioco di ruoli della complessità delle relazioni. 
Questa narrazione è stata sopra collocata su due piani che riguardano sia il modo che lo scopo: quello dell'essere e quello dell'apparire. L'apparire si riferisce evidentemente ad un rappresentarsi che è almeno funzionale ad uno scopo che può non essere evidente e cosciente, ad un ruolo da mantenere, mentre l'"essere" si riferisce più alla spontaneità ad un sentirsi ed esprimersi diretto.
È evidente come ambedue questi modi, poi, si organizzano ancora su due piani diversi riguardo alla consapevolezza, cioè possiamo esprimerci, raccontare di se cose di cui siamo pienamente consapevoli, ma sempre colorite da emozioni che partono dall'inconscio, anche se cerchiamo sempre di razionalizzarle per mantenerle nel dominio del controllo cosciente. Ci sono motivi del nostro comportamento ed emozioni che non sono immediatamente accettabili e confessabili se non rivestite da una giustificazione che le spieghi e le giustifichi. 
É evidente ancora, che tutto ciò riporta all'origine, alla relazione primaria che è poi quella familiare, campo emotivo e base di tutte le relazioni significative. Relazione che si costruisce e si sviluppa nell'interazione sistemica fra tre poli: padre, madre, figlio, e tra sottosistemi: genitori e figli, giovani e adulti, con aspetti psicodinamici che appartengono alle persone, ma contemporaneamente a generazioni diverse, tra livelli generazionali che esprimono a volte "culture" diverse.
Il rapporto tra giovani e adulti si basa e si sviluppa sullo schema del rapporto tra genitori e figli.
Il rapporto tra generazioni ha uno scopo, un fine ed una modalità di essere, lo scopo appare palese, spiegato dall'istinto genitoriale all'accudimento e dalle necessità culturali all'educazione, la modalità di essere è affidata anch'essa all'istinto mascherato da un'evidenza comportamentale ritenuta ovvia. La caratteristica più importante è che è sempre un rapporto stretto, legato ai bisogni ed alle esigenze del figlio, che nasce in una dipendenza assoluta dai genitori e che si avvia con velocità incostante e modi diversi all'autonomia ed alla separazione.
Come tutte le relazioni significative il rapporto genitori/figlio è immerso in un "campo emotivo-affetivo" che gli da senso e colore, che si esprime in modi evidenti e consapevoli, ma che si costruisce su contenuti mentali ed emozionali inconsci e nascosti che sono però determinanti nel mantenere, rinforzare, trasformare o distorcere la relazione. Questo campo oltre che essere definito e caratterizzato dalle emozioni è costruito dal pensiero, cioè è definito da come ci si pensa reciprocamente, cioè come i genitori pensano il figlio e come questo si sente pensato in rapporto a come pensa se stesso.
Se il rapporto tra genitori e figli è il luogo della crescita di questi e se la crescita è inevitabilmente legata alla differenziazione e quindi alla separazione, la trasgressione e la provocazione assumono in questo gioco un ruolo essenziale, come spinta alla differenziazione ed alla individuazione. Questo è il senso delle provocazioni che i figli ed i giovani mettono in atto nel rapporto con i genitori e con gli adulti.
La provocazione, in particolare in fase adolescenziale, è da una parte espressione dell'ambivalenza emotiva e dall'incertezza in cui i ragazzi si dibattono, dall'altra è una rivelazione trasgressiva che è per l'adolescente una prova del livello di autonomia possibile e per i genitori invito a cambiare, in accordo ed in sintonia con la crescita dei figli.
L'ansia che accompagna l'ambivalenza dell'autonomia induce il ragazzo alla provocazione, a volte ossessiva e petulante, ed i genitori a scoprirsi, a rispondere e quindi a raccontarsi in un modo diverso da prima, meno coperto dal ruolo, in un modo più dialogico, ma questo non è un'operazione facile per nessuno dei due dialoganti. Nella maggior parte dei casi accade invece che la provocazione attiva prevalentemente dei meccanismi di difesa che tendono ad irrigidire i comportamenti ed a dare alla "narrazione" un copione che esprime non tanto il dialogo ma la necessità di difendersi dall'ansia.
Ed è proprio l'ansia che caratterizza questi processi di crescita. Quella dei figli è legata ad emozioni forti anche se nascoste come l'incertezza e la paura, mentre quella dei genitori non è solo dovuta alla paura , ma all'incertezza, accompagnata dalla rabbia, dalla delusione o dal disappunto creati ed alimentati dalla provocazione, che spesso fa sentire impotenti, ma anche da una sottile e malcelata consapevolezza che tutto ciò rappresenta e prelude all'autonomia del figlio che passa sempre attraverso la separazione, la perdita, la consapevolezza e l'accettazione della diversità. 
Nel rapporto tra giovani ed adulti, quindi, la provocazione dei giovani rappresenta un comportamento che, al di la del disagio che attiva e della complessità delle manifestazioni, esprime una "necessità", è, come è stato già detto espressione dell'ambivalenza emotiva in cui si trova quasi costantemente il ragazzo preadolescente ed adolescente, che è poi incertezza, paura e timore, vissuti insieme ed in conflitto all'esplodere delle energie malcontrollabili, dovute all'età ed alla scoperta del mondo.
É un comportamento necessario ed obbligato che rientra nella "ritualità" di differenziazione dell'adolescenza. La trasgressione e le provocazioni esprimono i tentativi che il ragazzo fa per saggiare la disponibilità dei genitori a sopportare l'ambiguità di essere disponibili e contemporaneamente cambiare il rapporto per sostenere la sua capacità di crescere e di indipendenza. Tutto il complesso emotivo che l'accompagna rientra per certi aspetti nella fenomenologia e nella psicodinamica di quel processo che la psicoanalisi chiama dell'"elaborazione del lutto". Si può affermare che se manca la trasgressione e la provocazione si possono avere disturbi nel processo di crescita e di individuazione dell'adolescente, che anche se inapparenti, prima o poi nella vita si esprimono in un modo sintomatico.
Questo comportamento è uno stimolo emotivo forte per i genitori, sia come coppia sia come persone, stimolo che ha come scopo e come effetto quello di indurre un processo di cambiamento anche nei genitori, che inizia con l'accettare e gestire la separazione del figlio che cresce e diventa autonomo, nei pensieri prima e nei comportamenti poi. Un invito pressante ad entrare anch'essi in un mutamento evolutivo parallelo a quello del figlio.
Infatti, i complessi fenomeni psicologici dell'adolescenza coinvolgono sempre massicciamente la famiglia che é indotta a cambiare stile di vita e progetti esistenziali. Con l'adolescenza di un figlio i genitori sono costretti a rimettersi in discussione, a rivedere i rapporti personali con lui, ma anche a ridiscutere il rapporto tra loro. Il processo di base è che la verifica che il figlio fa su di se e sulla sua identità in formazione induce nei genitori una verifica della propria, un fare i conti con la propria storia e la propria capacità di riprogettarsi. Possiamo affermare che un processo simile coinvolge tutti gli adulti che hanno normalmente a che fare con i giovani, investe in pieno il rapporto tra giovani ed adulti.
É in questa dimensione che prende senso "il raccontarsi" sia nel significato comunicativo che riflessivo.
Di fronte alle provocazioni dei figli i genitori sono costretti a rispondere, e questo rispondere è sempre un raccontarsi, uno svelarsi, un mettersi in discussione nel rapporto.
Tutto ciò avviene in ogni caso all'interno di una relazione che ha delle caratteristiche specifiche e peculiari, è, naturalmente e necessariamente, asimmetrica e complementare. Ciò significa semplicemente che mentre il figlio fa il suo "dovere" provocando nel reinventarsi, i genitori devono fare i "genitori", anche come portatori di limiti e di confini, perché il figlio possa crescere e svilupparsi. I genitori non possono perdere il loro potere fino a che il figlio non ha conquistato il suo.
In questo particolare campo relazionale il raccontarsi dei genitori deve necessariamente essere un raccontarsi come persone, ma in una narrazione di coppia, un raccontarsi insieme per offrire al figlio la possibilità di confrontarsi con due persone diverse ma in rapporto. 
Tutto ciò vale anche per i genitori separati, che nonostante tutto, attingendo alle loro capacità genitoriali hanno, o dovrebbero avere, la possibilità di mantenere la disponibilità a fare un progetto comune per il figli, nonostante la rottura dei rapporti personali tra loro. Questa è spesso la sfida maggiore che la provocazione dei figli scaglia contro i genitori, cioè l'invito ad una verifica del loro rapporto, e tutto ciò vale ancora di più per il mondo degli adulti nel suo complesso.
Raccontarsi in modo "psicologicamente onesto " significa per i genitori e per gli adulti riconoscere il loro "pregiudizio", cioè riconoscere che il figlio non corrisponde più all'immagine che loro hanno di lui che è inserita nei loro progetti e che fa parte del progetto che loro hanno per lui, e contemporaneamente, che il figlio è una "persona", con pensieri propri, potenzialità progettuali proprie, che, anche se in costruzione, fortunatamente producono progetti diversi ed originali.
Tutto ciò però non significa che sia necessario o opportuno un atteggiamento pedagogico libertario o minimalista, ma significa solo che il progetto di vita di ognuno, che nasce e si forma nell'età evolutiva, non è né il frutto di un caso, né del fluire naturale delle cose, ne tantomeno di una pedagogia controllante o direttiva, ma di un incontro, a volte di un conflitto necessario, di un processo non facile di costruzione e di maturazione reciproca che dovrebbe portare il figlio ad essere adulto con un proprio progetto personale, che tiene conto delle sue possibilità, della propria storia e del mondo.
Il processo di crescita in età evolutiva, ed in particolare nell'adolescenza è sempre un processi di decostruzione e ricostruzione, nella realtà dei fatti significa che ogni ragazzo si trova per natura indotto a smontarsi pezzo per pezzo, scegliere cosa tenere e cosa buttare del suo "vecchio" modo di essere, unire tutto ciò alle nuove proposte che il mondo offre e ricostruirsi. In questo magma creativo i genitori hanno solo la possibilità di rendere convincenti ed appetibili, pensieri, opinioni, comportamenti che ritengono opportuno essere utile fare acquisire nella costruzione della personalità del figlio, che è sempre la risultante complessa, e non la sommatoria, di tutto ciò che succede nelle relazioni che tesse in età evolutiva. 
Rimanendo saldi i parametri del rapporto, il raccontarsi reciproco dovrebbe essere il più diretto possibile, ma ciò non significa che dovrebbe essere assolutamente veritiero altrimenti si violerebbe il "diritto alla trasgressione", è un narrarsi insieme su una scena che ha delle "quinte" e dei "fondali" noti e conosciuti, ma che necessariamente nascondono le "macchine" che vi stanno dietro e che rendono possibile la narrazione. Tutto ciò porta ad un gioco di complicità palese e silente in cui la trasgressione è prevista, a volte conosciuta, ma la conoscenza resta riservata e nascosta, è un esercizio che permette ai genitori ed al figlio di attivare quell'ansia necessaria a gestire il processo di separazione.
Il raccontarsi riflessivo corrisponde a mettersi in discussione con l'immagine di se, nel momento che l'identità legata al ruolo genitoriale si sfuma ed i genitori si trova nuovamente a doversi riprogettare.

4 Una questione interpretativa
Tutto ciò che fino a qui abbiamo detto porta alla questione di come interpretare la fenomenologia del rapporto tra giovani ed adulti.
La prima cosa da fare è rendersi conto che quest'interpretazione non può essere mai "innocente" e che per essere onesta non può che essere il frutto di una dinamica relazionale, capace di mettere e mantenere in rapporto, di fare una sintesi tra come noi adulti interpretiamo il fenomeno e come lo interpretano i giovani.
La difficoltà sta proprio nell'essere reciprocamente ed insieme osservatori ed osservati.
Una possibile e concreta oggettività interpretativa non può che nascere da un'onesta e consapevole soggettività dell'osservazione. Bisogna ricordare che l'efficacia ed i risultati di ogni intervento hanno origine dalle premesse interpretative del progetto ed a quanto questo riesce ad essere concreto, che è diverso dall'essere pragmaticamente motivato.
Solo per fare un esempio mi piace ricordare che la fascia d'età dei giovani con i quali stiamo dialogando va dai 14 ai 18 anni e rappresenta il periodo più intenso di trasformazione, di cambiamenti, di contraddizioni, di problemi. Fase di formazione e di transizione dall'infanzia all'età adulta, che non a caso coincide giuridicamente con l'età in cui si assume la responsabilità penale che è però giudicata e trattata in modo particolare e rispettoso della fase evolutiva della vita.
Oggi le cronache, ma anche le statistiche ci mostrano un aumento dei comportamenti di devianza sociale in età precoce, cioè nella prima fase dell'adolescenza, nella preadolescenza ed a volte anche prima. La costatazione di questo fenomeno richiede un'analisi ed un'osservazione corretta, completa e complessa prima di apportare provvedimenti di correzione e di prevenzione che possono essere efficaci anche se spesso obbligatoriamente riduttivi.
Una delle proposte fatte è quella di abbassare i limiti della fascia d'età della punibilità minorile, basandosi sul fatto che oggi i minori maturano prima che nel passato.
Credo, ma questa forse è una mia opinione, che tutto ciò sia discutibile, parte da una lettura e da un'interpretazione del fenomeno, riduttiva e semplificante, astratta ed in definitiva "pregiudiziale". Semplificante perché identifica la "maturità" con l'acquisizione di performances e con l'adattamento pragmatico al mondo, saper usare un computer e sapersi districare per sopravvivere non equivale ad essere emotivamente formati e stabili, né tanto meno aver raggiunto una coscienza critica, che sono gli indice reali per stabilire la "maturità" raggiunta, che ad un'attenzione diversa appare, caso mai avvenire più tardi e spesso in modo parziale.
In tali situazioni il comportamento giovanile è un epifenomeno, un sintomo di altri fattori più complessi, più intricati e che è necessario osservare ed interpretare in modo diverso. 
È legittimo a questo punto domandarsi in definitiva cosa si debba e si possa fare, posso solo ricordare che ogni adulto ha la possibilità e l'opportunità di cercare di essere consapevole di ciò che accade, delle proprie emozioni e della loro intima natura, dei propri pregiudizi e della propria visione del mondo e contemporaneamente delle emozioni dei giovani e del significato dei loro comportamenti. Nel momento in cui si interpreta è necessario avere il coraggio di rimettersi personalmente in discussione, che è poi l'unico modo per fare acquisire ai figli questa capacità essenziale. 
Mi rendo ben conto che tutto ciò non rappresenta un modo facile di essere in rapporto e che proprio a causa dell'apparente banalità dell'osservazione, si rischia facilmente di rimanere nel campo delle intenzioni e delle illusioni mascherate da "senso comune". Si può riflettere ancora che è necessario essere impietosamente onesti con se stessi e fermamente generosi con i giovani pretendendo da loro altrettanto, sapendo bene che i loro pensieri ed i loro progetti appartengono ad un futuro che non ci appartiene.
Al di là di tutto però basta forse lasciarsi andare a vivere con sincerità tutta l'intensità emozionale del rapporto che abbiamo con loro, e con loro riflettere, interpretare e cambiare.

 

 

 

 

 

 

 

 


Giovani e adulti:
Prove di ascolto e questioni interpretative
Relazione
di Mario Santini
 Sommario
Prove di ascolto
La diversità, una scomoda risorsa, una difficile opportunità:
Raccontarsi come "Prova di ascolto" reciproco.
Una questione interpretativa
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